His House, la perdita d’identità nel nuovo horror Netflix
Se esiste ancora un cinema di genere, che non voglia lagnarsi con le speculazioni autoriali di qualche regista dalle manie di grandezza, è giusto osservare che ogni deriva di genere, e ogni declinazione dello stesso genere, sono ormai permeati quasi del tutto da una ricerca smaniosa di critica ai costumi e alla società. Fuori da questa recinzione c’è qualcosa di vagamente distante, e dobbiamo rivolgerci al cinema afroamericano, non come presa di posizione politica, ma perché negli ultimi anni è facile constatare come i pochi risultati interessanti nel cinema dell’orrore siano arrivati da lì.
Il cinema di Jordan Peele, piaccia o meno, ha prodotto finora due risultati da tenere in considerazione, ossia un esordio straordinario (Get Out) e una seconda opera finemente scritta e con picchi umoristici degni di un ispirato Wes Craven, soprattutto quando si cerca di affrontare il tema razziale con ironia e un gusto pop che a volte scivola nel meta-cinematografico.
Un altro figlio di questa nuova corrente è l’esordio alla regia di Remi Weekes, afroamericano che approda su Netflix proprio oggi, con l’horror “His House”. Cadendo a pennello per Halloween, è il film adatto per una serata ‘da brivido’. Ma di cosa parla? Una famiglia del Sudan – Wunmi Mosaku e Sope Dirisu – affronta il viaggio della speranza con un barcone, in Europa, fino a Londra dove troveranno una squallida sistemazione, in attesa del permesso di soggiorno.
Nel viaggio, però, perdono la figlia durante una tempesta in mare, e il trauma di questo abbandono sarà la miccia che farà esplodere lentamente il film, nella sua ora e mezza di durata. Dentro l’abitazione, un incubo che si dipana lentamente come una goccia cinese, fino a far dubitare i due protagonisti della loro stessa sanità mentale. Fuori, l’impossibilità dell’integrazione tra bianchi diffidenti e una comunità nera ormai integrata nel sistema inglese, e in cui è impossibile ritrovare le radici dell’Africa abbandonata – con orrore, ma che rimane pur sempre la vera casa della giovane coppia.
Impossibile aspirare alla pace, che ci si trovi per strada o in casa, di notte o di giorno: questo è il primo elemento di novità, nella pellicola di Remi Weekes. Una tortura che macina angoscia ininterrottamente, che vive dei traumi della guerra lasciata alle spalle, delle tribù sanguinarie che si combattono in Sudan, di un lutto incolmabile e dello spaesamento di due giovani senza patria. Ma ci sono anche le regole ferree da rispettare, pena l’espatrio.
E allora che fare? Accettare il decorso di una casa lugubre che si scompone, che perde pezzi e dietro la tappezzeria fresca mostra gli squarci del muro, come le ferite – sentimentali e fisiche – dei due protagonisti, e affrontare, quando arriverà il momento, il passato che corre verso la loro direzione.
Tra i colori freddi della Londra periferica e quelli caldi, accoglienti della nuova dimora, il film cambia pelle e si rinnova ogni mezz’ora: una prima parte nostalgica, lineare, dove aleggia una volontà quasi documentaristica – raccontare con sincerità il viaggio fisico e burocratico di un migrante; una seconda parte più stimolante, che mette carne al fuoco e alterna qualche cliché noto da “casa infestata” insieme ad alcune trovate sinceramente d’effetto, rendendo giustizia alle atmosfere tetre della prima sezione e racchiudendo tutto in una dinamica intima, famigliare, in cui l’incursione metafisica arriva placida e subdola come nella “Casa di foglie” di Mark Danielewski; una terza parte, infine, in cui l’intreccio si stravolge, la realtà si unisce al ricordo e poi all’immaginazione.
Quando si torna nel presente, dopo una breve epopea nelle menti dei protagonisti, il film prende una piega inaspettata, che da spettatore mi ha sinceramente spiazzato, in negativo. L’andamento lento e riflessivo, quasi un vedo-non vedo senza volontà di spaventare davvero, ma soltanto di raccontare una storia di angoscia e dispersione, lascia il posto a una soluzione pacchiana, noiosa e visivamente discutibile.
E negli istanti finali, la sensazione di un cerchio che si chiude, riportando tutto dov’era iniziato un’ora e mezza prima. Ma i protagonisti sono cresciuti, e l’eredità perduta, quel vuoto incolmabile che prima si riempiva di orrore, si evolve e diventa un lascito prezioso: la propria identità.