Gli anni del Grunge: un libro omaggia l’ultima grande rivoluzione musicale
Da oggi nelle librerie e negli store digitali “Gli anni del Grunge: Italia 1989-1996” (PubMe – Collana Gli Scrittori della Porta Accanto) a cura di Giacomo Graziano: gli aneddoti, le interviste, le emozioni dei fan, i grandi eventi e gli incontri casuali con i protagonisti dell’ultima grande rivoluzione musicale, così come è stato vissuto nella nostra Penisola: il pop si è fatto da parte per dare spazio al fenomeno underground uscito dal suo guscio alternativo, esploso in una supernova che non ha risparmiato niente e nessuno. Non ha risparmiato gli ultimi eroi del rock prima del crepuscolo: Kurt Cobain, Layne Staley, Andrew Wood, Chris Cornell e tanti altri artisti sensibili e talentuosi, ciascuno capace di comunicare un disagio personale cui era possibile immedesimarsi.
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Negli scritti raccolti del libro, ci sono le testimonianze di giornalisti, critici musicali, organizzatori, musicisti, strumentisti, Dj, promoter si attinge dal cassetto dei ricordi a rievocare le emozioni del passaggio del grunge, della “musica sporca e rumorosa del Northwest”, dei piccoli e grandi concerti in Italia, o la trepidazione nel tenere in mano una copia fresca e scintillante di Ten o di Nevermind.
Il grunge è stato “il manto protettivo” di un’intera generazione, forse in ritardo rispetto al resto del mondo, dove le innovazioni giungono come polvere trasportata dal vento. “Ricordate gli sguardi dei nostri genitori, rassegnati a un baratro generazionale incolmabile impotenti spettatori di una moda contro la quale i loro biasimi non potevano nulla”, si legge nella nota di presentazione.
“La flanella, i maglioni informi, i jeans strappati; Kurt Cobain appeso a un lampadario e quella pistola che galleggiava sott’acqua; Chris Cornell che urlava al cielo verso un sole nero che inghiottiva ogni ipocrisia; Jeremy che si faceva saltare le cervella davanti a tutta la classe. Avevamo il cuore e gli occhi pieni delle immagini di questo carrozzone impazzito che saturava gli scaffali dei negozi di dischi, di vestiti, le televisioni e le radio. Quando tutto questo galoppava ai massimi giri del motore – e le tasche delle etichette discografiche e dei manager erano gonfie da scoppiare – il grunge in realtà era già morto. Da anni. Per trovare il vero grunge, dobbiamo tornare indietro al suo ultimo anno di vita, il 1989″.
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Divenuto etichetta, la sua accezione ha cominciato ad avere confini temporali, stilistici. Beh, a quel punto ha smesso di esistere. Il vento del grunge imperversava nei vicoli di una città, negli appartamenti studenteschi del quartiere universitario, nei corridoi fetidi del Music Bank di Seattle, dove i gruppi andavano a suonare nelle sale prove, a bere caffè, alcuni a dormire e vivere per non stare in mezzo a una strada.
QUELLA SERA CHE (MI) SUONARONO I PEARL JAM
Tra le pagine del libro c’è anche la rielaborazione di un articolo a firma di Fabio Iuliano per il nostro Magazine. Protagonista della storia, il critico cinematografico Piercesare Stagni, cultore del grunge sin dagli anni del debutto, ve ne riproponiamo la lettura in integrale, così come è apparso su The Walk of Fame.
Roma, luglio 1993. Gli U2 si esibiscono a Roma con due date all’indomani dell’uscita di Zooropa in un set allo stadio Flaminio che sarà ricordato per anni. In apertura ci sono gli An Emotional Fish, band alternative rock di Dublino e i Pearl Jam, entrambe poco conosciute ai più, in Italia, almeno all’epoca, anche se Eddie Vedder e compagni sono in giro da mesi per suonare le canzoni del loro album d’esordio Ten, una vera rivelazione nell’alternative rock, e per testare quelle di Versus, atteso per ottobre.
Chi si presenta ai cancelli ha in tasca un biglietto da 45mila lire più prevendita a cui magari aggiungere anche quelle 10-15mila lire per fare avanti e indietro dalla città di provincia. “Così sono arrivato dall’Aquila, in un pullman organizzato e riempito da tanti musicisti o aspiranti tali che attendevano queste due date da alcuni mesi”, ricorda Piercesare Stagni, oggi critico e docente di materie cinematografiche, uno che però non ha mai riposto in soffitta nessuna delle sue chitarre e continua a suonare in una punk band, i Niutàun.
“C’era una pubblicità di questi due concerti al Cit (centro di informazione turistica) che, peraltro, si trovava proprio di fronte al vicolo del Rex, frequentato da tante band del momento”, prosegue. “Ricordo ancora la grafica del manifesto. Io avevo scelto la serata del 6, ma ci ho pensato a lungo: essendo le date di lancio dell’album Zooropa, girava voce che gli U2 avrebbero inserito in una delle due scalette Numb, da suonare in anteprima mondiale. Avrei dovuto giocarmela a testa o croce, visto che la prima sera suonarono altro. Gran concerto, per carità”.
Con buona pace di Fabrizio Moro – che in alcune interviste recenti non ha nascosto le perplessità di alcuni ragazzi per la prima volta davanti ai Pearl Jam, si sono trovati a dire: “Ma chi sono questi? La chitarra è scordatissima e il cantante è stonato” – la performance della band di Seattle è andata oltre le aspettative.
“C’era gente”, ricorderanno tante volte Danilo Cianca e Giuseppe Tomei nel programma di Radio L’Aquila 1 – Controllo a Terra, “che aveva pagato quelle 50mila lire solo per assistere ai Pearl Jam, strappando il biglietto e tornando a casa, senza neanche aspettare gli U2. Noi non lo avremmo mai fatto, ma almeno abbiamo capito il perché”.
E però, per un ragazzo di vent’anni o poco più – all’epoca Piercesare Stagni era studente di Giurisprudenza a Roma – 50mila lire erano soldi. “Mi sono guardato le tasche e ho capito che no, non c’era la possibilità di fare il bis per il secondo concerto, solo per ascoltare la nuova canzone. Però, insieme ad altre persone, ho deciso di rimanere una serata in più, ad ascoltare il concerto da fuori, alla meglio, in uno dei piazzali circostanti lo stadio. Per dormire, mi sono appoggiato da amici. Eravamo in dieci in un appartamento di 70 metri quadri. Meglio tirare tardi il più possibile dopo il concerto, tanto in ogni caso si dorme scomodi”.
Ed è qui che ha inizio la guerra dei Pier. “Col mio amico Pierfrancesco, ci siamo spostati a piedi verso via Veneto e ci siamo piazzati davanti all’ingresso dell’Hotel Majestic – cinque stelle – sicuri che lì, presto o tardi, gli U2 sarebbero tornati. Lì intorno c’era gran fermento, si vedeva girare gente come Paolo Zaccagnini e vari giornalisti internazionali, spediti a Roma appunto per la prima di Zooropa. Tuttavia, qualcuno lì davanti, non ricordo bene, ci ha detto ‘nun ce provate, tanto adesso staranno a magna’ a Fregene“.
Perché proprio Fregene? Beh la ragione è legata al videoclip di All I Want is You, girato a Capocotta (Lido di Ostia), set quotatissimo anche per alcuni film erotici di Tinto Brass. “Col senno di poi”, sottolinea Stagni, “avremmo fatto bene a rimanere dove eravamo: era solo questione di attendere un paio d’ore e avremmo potuto stringere la mano a Bono o The Edge.
E invece, abbiamo iniziato a camminare tra i vicoli a caso, fino a quando non siamo arrivati a piazza Navona”. È lì che accade quello che non ti aspetti. “Era una serata calda e ogni tanto dovevi fermarti per bere. Ci avviciniamo a una delle fontanelle della piazza”, ricorda.
“Faccio per bere, ma davanti a me si piazza un giovane dalla camicia a scacchi di flanella, vistosamente ubriaco. Sapeva di vomito. Indugia sulla fontana, ma gli chiedo di scansarsi. A quel punto, lui tenta una reazione, ma è evidente che non riesce neanche a reggersi in piedi. Proprio in quel momento, mi rendo conto che non è da solo. Nei paraggi ci sono due pulmini dai vetri oscurati, quelli che si usano per il servizio transfer degli hotel”.
“Giusto il tempo di fare mente locale, si apre la porta scorrevole di uno dei due minivan ed escono dei ragazzi, vestiti grosso modo come lui – uno anche con uno strano basco in testa – e si avvicinano verso di me, mi strappano il loro amico di dosso e lo riportano a bordo. Nell’operazione ci rimedio anche un paio di cazzotti, così gratuitamente”.
Il tutto si risolve nel giro di pochi minuti, neanche il tempo di realizzare che il gruppo di ragazzi del mini-van erano i Pearl Jam. “Cazzo, ho realizzato solo dopo: eppure quel basco strano lo avevo visto solo in testa al bassista (Jeff Ament ndr.) e aveva catturato la mia attenzione”. La cosa più sconvolgente era anche il giovane ubriaco era nientepopodimeno che Matt Dillon. “Insieme avevano recitato, l’anno prima, sul set di Singles di Cameron Crowe. Insieme avevano vissuto quella parentesi romana, mi è capitato poi di vedere la foto di Dillon come ospite nel backstage. Quella sera lui era ubriaco, aveva vomitato e lo avevano mandato a ripulirsi in una fontanella, appunto. La stessa fontanella che serviva a me. E fu così che mi hanno suonato i Pearl Jam”.
Ma non è finita qui. “La guerra dei Pier” è finita in baretto anonimo di Corso Vittorio, con le saracinesche semichiuse. Dentro c’era una festa privata con tanto di trenino e musica brasiliana. Era il compleanno di uno dei gestori. Tra gli ospiti anche Giucas Casella. Piercesare potrebbe continuare a parlarne per ore, così come potrebbe raccontarti quella volta che, sempre a Roma, si ritrovò ad aiutare un semisconosciuto Kurt Cobain a gestire una chiamata a carico del destinatario col telefono a gettoni. Doveva parlare con la madre. Aneddoti di un tempo che non c’è più.
Ma queste sono storie che racconteremo un’altra volta.