Giorgio Barberio Corsetti e la Metamorfosi di Kafka: il suo messaggio è eterno
Dopo la rilettura della trilogia dei racconti del 1988 e Metamorfosi cabaret dello scorso marzo, Giorgio Barberio Corsetti torna a Kafka con questo suo Metamorfosi, che, dopo una prima settimana di repliche nel maggio 2021, da oggi fino al 27 febbraio terrà il palco del Teatro Argentina.
Ne abbiamo parlato con il regista e attore, già direttore artistico del Teatro di Roma.
La prima domanda è d’obbligo: cosa proverà quando il sipario si alzerà di fronte alla scena? C’è stato un momento, dopo il mese di maggio dello scorso anno, in cui ha temuto che non sarebbe più accaduto?
Lo spettacolo è nato ad ottobre del 2020, quando, in piena, prima recrudescenza del Covid, ho deciso di lavorarci. In quel momento, gli attori non potevano toccarsi per le normative in vigore, così ho subito pensato a Kafka e a quanto in La Metamorfosi ci siano continue allusioni all’impossibilità del contatto fisico.
Un mese dopo, lo spettacolo era pronto e siamo riusciti a rappresentarlo per una settimana lo scorso maggio sempre all’Argentina. Poi, purtroppo, più nulla fino ad oggi, quando finalmente ha la possibilità di rinascere, di cominciare una nuova vita. Il teatro esiste solo quando ci sono gli attori sul palcoscenico e il pubblico in sala, se non si verificano queste due condizioni si parla di altro. Deve accadere, deve poter sprigionare tutta la gamma di emozioni che solo l’arte dal vivo può regalare.
Di nuovo Kafka. Cosa l’ha spinta a riprendere il grande autore ceco? E in che modo, secondo lei, La Metamorfosi ci parla oggi rispetto a quando fu concepita?
Innanzitutto la considerazione che, anche a quasi cento anni dalla sua morte, pochi scrittori come Kafka possono essere considerati davvero nostri contemporanei. Riusciva a percepire quello che accadeva nel mondo e a trovare le stesse crepe che caratterizzano il nostro quotidiano senza nessuna fatica, rivelandoci sempre la tragedia e la comicità che le permeavano.
La sua scrittura è forma incarnata. In Metamorfosi in particolare è riuscito a descrivere in modo impareggiabile una storia di depressione (uno dei mali contemporanei per eccellenza) e, ancor di più, una storia di depressione indotta dal lavoro e dalle gerarchie che lo rendono spesso così problematico per il singolo.
Partendo da questo, è poi riuscito a catturare la dimensione più intima e problematica dell’individuo che ne soffre, dell’individuo che si chiude in se stesso fino ad arrivare al proprio autoannullamento. Ma non si è fermato a questo, ha fatto in modo che il dramma di Gregor diventasse anche il nostro, lo ha reso particolarmente “accessibile”.
E nel momento in cui il suo isolamento diventa anche linguistico, quando cioè lui comincia a parlare un’altra lingua, quella degli insetti, pur continuando a intelligere quella umana, beh, direi che si arriva al cortocircuito totale tra lui e il resto delle persone e, quindi, tra noi e le altre persone (per sottolineare questo aspetto, ho ritenuto molto funzionale utilizzare la terza persona sulla scena).
Quando ha cominciato a pensare allo spettacolo, il Gregor che aveva in mente era già ben delineato o è diventato quel che vediamo sulla ribalta dopo aver scelto come suo interprete Dalisi? Quale pensa sia stato il contributo dato da questo attore al personaggio?
Di una cosa ero sicuro fin dall’inizio: il mio Gregor non avrebbe dovuto avere nulla che rimandasse in qualche modo al mondo animale, perché volevo che apparisse e si sentisse un uomo e che solo la percezione degli altri lo trasformasse in un’altra cosa, in un altro tipo biologico.
Per raccontare la sua trasformazione, oltre alla simbologia costituita dalle lenzuola del letto che sottendono al bozzolo dell’insetto, mi sono servito esclusivamente della poesia del corpo di chi lo ha interpretato, quindi si può dire che solo la capacità di recitare e di improvvisare di Dalisi può dare senso ad una rappresentazione di “animalità”.
Michelangelo è stato bravissimo a trovare i “segni” giusti per entrare dentro Gregor e per dare vita alla transustanziazione che Kafka aveva immaginato, creando anche le giuste relazioni di distanza con gli altri personaggi e trasformando la sua stanza in una dimensione altra rispetto al resto del mondo (che, sia nell’opera originale che nella mia riduzione scenica, è simboleggiato dall’appartamento dei Samsa).
Lei è da molto tempo un fautore e uno sviluppatore di una sorta di “meticciato” linguistico a teatro che è ancora in costante evoluzione. Ci spiega a quale esigenza umana e, soprattutto, artistica risponde questa sua cifra?
Nel teatro, il mio è stato ed è principalmente un viaggio lungo i suoi confini perché l’ho sempre considerato un crocevia di tante arti differenti (recitazione, musica, luministica, drammaturgia, videoarte, scenografia, ecc). La possibilità poi di poter lavorare su vari livelli di espressione è sempre stata molto stimolante e sempre sottoposta a tante, eccitanti variabili a seconda del tipo di progetto in cui mi sono imbattuto.
Io, per natura, sono una persona molto curiosa, che, come ben testimonia il mio curriculum, sono assai propenso alla collaborazione e all’incrocio di diverse competenze. Penso che sia un atteggiamento giusto per catturare strati emozionali sempre variegati, per ottenere risposte dal pubblico sempre nuove. In questo senso, Metamorfosi è stato uno spettacolo con cui mi sono sentito particolarmente a mio agio, che mi ha concesso di poter essere sperimentale come piace a me.
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Nel testo di partenza, la metafora della trasformazione del protagonista si sostanzia in termini drammatici, ma, data la sua natura paradossale, non difetta di sfumature se non proprio comiche, quantomeno beffardamente ironiche. Come ha provato a restituirle sul palcoscenico e in che modo il teatro può dilatarle rispetto alla “semplice” letteratura?
Si deve immaginare che quando Kafka terminava un suo scritto, la maggior parte delle volte era solito leggerlo ad alta voce davanti ad alcuni, fidati amici, traendone un grande divertimento e fugando il senso di cupezza al quale molto spesso veniva e viene aprioristicamente associato già solo quando lo si nominava o lo si nomina.
In realtà, lo sviluppo magistrale del paradosso, la sua innata capacità di saper rappresentare “mondi paralleli” è di per se stessa una traccia dell’importanza che egli attribuiva all’ironia. Se consideriamo La Metamorfosi, ad esempio, nel momento in cui Gregor si trasforma in un insetto, il fatto di essere rinnegato dalla sua intera famiglia e dall’amata sorella in particolare (non dimentichiamo che, prima della sua trasformazione, era lui a portare il pane a casa) secondo me crea un’ironia (l’ironia della sorte), per quanto “drammatica”.
Per quel che pertiene invece il discorso strettamente teatrale, direi che la riduzione scenica del libro permette di rappresentare la storia in un modo diverso grazie a tanti fattori: l’espressività degli attori, lo spazio che cambia costantemente (e ogni cambiamento sottende chiaramente a qualche metafora, come ad esempio la porta: ogni volta che Gregor la supera, succede qualcosa di irreparabile nella sua vita), l’uso delle luci…
Ogni invenzione propriamente teatrale permette uno scarto rispetto alla traccia originaria e il discorso vale anche per i suoi aspetti potenzialmente più ironici (pensiamo a quando Gregor si arrampica sui muri: sembra di essere in un film comico degli anni Venti del Novecento, più che a teatro).
Sempre riguardo al concetto di trasformazione: in Metamorfosi si risolve in una sorta di naturale processo di (auto)eliminazione, come ha già accennato. Si può sperare, invece, come uomini e come società, in qualcosa di meno esiziale? E, nel caso, come arrivarci?
La trasformazione nasce da una base di inadeguatezza percepita, che crea “stacco”, isolamento e, dunque, depressione (dovuta o non dovuta al lavoro), che può essere un fenomeno individuale ma anche sociale, come sta avvenendo oggi con il perdurare del Covid.
Nessuno di noi si sarebbe aspettato una cosa del genere, eppure… Kafka, quando racconta, parte sempre da sé, dalla sua esperienza, ma questo non gli impedisce di percepire e dunque descrivere una “caduta” che riguarda tutti noi, che afferisce all’uscita di tutti noi dalla normalità. Detto questo, non so immaginare degli esiti differenti, suggerire diverse risoluzioni, più che altro, a certi problemi che ci riguardano.
Visto che stiamo parlando di pandemia: secondo lei, di cosa ha bisogno il teatro per far tornare il pubblico al suo posto? Cioè, al di là del discorso sanitario, cosa dovrà dire e/o osare per convincerlo?
Partiamo da quello che mi sembra per la sua stessa natura evidente: il teatro è un antidoto sociale, spirituale e fisico alla solitudine che la pandemia e l’isolamento hanno determinato. Il teatro dà senso di collettività, è una promessa a tornare insieme. Attraverso i suoi elementi peculiari riesce a creare un’esperienza diversa della socialità e dell’essere un essere umano.
Fa ascoltare l’inudibile e fa vedere l’invisibile, crea un contatto profondo con il proprio sé più recondito e con quello degli altri (proprio come avviene in Metamorfosi). E lo fa, come già dicevo prima, accadendo in un solo, particolare, irripetibile momento. Ecco, tutto quello che dovrà fare il teatro “del futuro” è non perdere queste sue caratteristiche. Tutto il resto verrà da sé, per come la vedo io.
Ultima domanda, anch’essa di rito: cosa bolle in pentola per il prosieguo del suo 2022 in campo lavorativo?
Dopo Metamorfosi e dopo Amleto dello scorso fine 2021, avrò bisogno di riposarmi e di avere tempo per viaggiare, distaccarmi da tutto, compresa questa città, la mia Roma. Non ho niente in mente per il momento, forse solo un vago desiderio di tornare a scrivere e progettare qualcosa quando sentirò che sarà arrivato il momento giusto. Vedremo.
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