Giù il sipario. L’addio di Gigi Proietti è un “pezzo de core” che se ne va
Sarebbe troppo facile scrivere il classico pezzo commemorativo su un artista come Gigi Proietti. Attore di teatro e di cinema, scrittore e autore, drammaturgo, cantante, musicista e polistrumentista, e poi ancora cabarettista, trasformista, regista e poeta. Quello che ha dato la voce a Sylvester Stallone nel primo Rocky o a Gandalf nella trilogia de “Lo Hobbit”. Quello del “Whisky maschio senza rischio” e che per tutta la vita, si è battuto per la diffusione e la valorizzazione di cultura e teatro. “Nella totale perdita di valori della gente, il teatro è un buon pozzo dove attingere”, diceva.
Poliedrico e immenso artista della scena italiana che, nel corso di una carriera durata quasi sessant’anni, non ha mai smesso di celebrare e omaggiare una Roma a cui era fortemente legato e che gli faceva battere quel cuore “mezzo giallo e mezzo rosso”. Romano di quella Roma che va da Rione Ponte a Trastevere, delle piccole botteghe, di Via Giulia e delle borgate che ti crescono, anche troppo presto. Di quella Roma “d’amore e di coltello” direbbero “Er più” di Celentano o lo stesso Proietti in una delle sue più famose rappresentazioni: “Er fattaccio der Vicolo der Moro”. Da brividi.
Maestro di ironia e affabulatore mai volgare. Protagonista al cinema e sul palcoscenico con personaggi rimasti nel cuore. E proprio con la sua scuola di teatro, ha insegnato a recitare e far ridere a intere generazioni di artisti: da Flavio Insinna a Giorgio Tirabassi, da Massimo Wertmüller a Enrico Brignano, fino a Gabriele Cirilli, Francesca Reggiani e Rodolfo Laganà. In un momento storico così intenso, come quello che stiamo vivendo, le sue dichiarazioni non erano mai banali ma sempre cariche di forza: “Dalla crisi non si esce con l’odio, la rabbia: quelle sono le conseguenze. La soluzione, invece, è l’amore, e il far tornare di moda le persone per bene”.
Se ne è andato all’alba del 2 novembre di un anno fa, nel giorno del suo ottantesimo compleanno. Col garbo e la riservatezza che lo hanno contraddistinto per tutta la vita. “Signor Conte”, recitava in Febbre da Cavallo, “Io non scherzo. Non scherzo mai… io gioco. Sì, er gioco è una cosa serissima. Perché chi scherza lo fa pe divertisse, ma chi gioca punta, s’illude, s’inventa un lieto fine… che non arriva mai”. E che fosse uno scherzo l’abbiamo sperato tutti quando la notizia s’è diffusa.
Cala il sipario e Gigi Proietti ci saluta come solo lui sapeva fare: con un colpo di scena inaspettato e con un pizzico di teatralità che così bene gli riusciva di rappresentare. Perché come abbiamo subito detto qui a Roma: “nascere e morire nello stesso giorno, a distanza de ottant’anni, ‘o poteva fa’ solo Mandràke”. Lui su questa cosa ci ironizzava. Su quel 2 novembre che, a Roma sua, basta nominarlo per sentirsene dire di tutti i colori: “Che dobbiamo fa’? La data è quella che è, il 2 novembre…”. Dal mondo dell’arte e dello spettacolo di tutt’Italia sono piovuti messaggi di cordoglio e di dolore: “Una fiumana”, come disse in occasione dei funerali di Alberto Sordi. E come per Albertone, la Sora Lella e Anna Magnani, quello di Gigi Proietti è un addio che si sente. È un pezzo di Roma che se ne va. Come se si dovesse rompere un pezzo di Colosseo. “E tu provace, a Roma, a toccà er Colosseo…”.