Festen, il capolavoro di Vinteberg è diventato un grande spettacolo. L’intervista al regista Marco Lorenzi
In cartellone alla Sala Umberto fino a domenica 5 marzo, il “Festen” della compagnia Il Mulino di Amleto è senza alcun dubbio una scommessa teatrale molto ardita: voler portare in scena, infatti, un capolavoro cinematografico come quello del danese Thomas Vintenberg, manifesto del movimento “Dogma 95” e caratterizzato da un linguaggio figurativo a dir poco spigoloso, avrebbe potuto rappresentare una scelta potenzialmente suicida, in termini di resa spettacolare ma anche contenutistica. Invece, a parere di chi scrive, (e non sono certo solo viste le numerose, entusiastiche recensioni e gli altrettanto numerosi, concordi pareri di gradimento assoluto espressi sui social da chi lo ha visto), si tratta di un esperimento di “traduzione” assolutamente ben riuscito e da non lasciarsi sfuggire.
Ne abbiamo parlato con il regista Marco Lorenzi.
La prima domanda non può che essere: quando e perché le è venuto in mente di mettere in scena un film a dir poco particolare come “Festen”?
Il progetto di portarlo a teatro l’ho accarezzato da molto tempo. Io sono un grande amante del cinema e, inoltre, con Il Mulino di Amleto abbiamo sempre subito il fascino dell’estetica cinematografica e della ricchezza del suo linguaggio. Probabilmente l’idea è nata già la prima volta che ho visto il film, perché mi ha colpito forte a livello emotivo. È stata un’attrazione subitanea, di una natura che definirei quasi “erotica”. Partendo da questo impulso ho cominciato a sviluppare delle idee, delle tracce, che si sono arricchite nel corso del tempo anche grazie al fatto che io frequento non poco il teatro al di là dei nostri confini. All’estero, non solo in Danimarca, “Festen” è una specie di classico da anni (la prima versione teatrale, rappresentata a Londra, risale al 2001). Comunque ci tengo a sottolineare che per me non è soltanto un dramma borghese come spesso è stato definito, ma possiede una visione metafisica, piena di simboli e di archetipi, che a mio giudizio il teatro può sviscerare con assoluto profitto, anche più del cinema. Nell’elaborazione dello spettacolo abbiamo infine studiato con grande attenzione Ibsen (come ha fatto lo stesso Vintenberg, d’altronde) e certi capisaldi della tragedia classica, in quest’ultimo caso soprattutto per le implicazioni politiche della storia che raccontiamo (l’”Orestea” è stato un faro).
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Tenendo presente i “paletti” stilistici imposti dal Dogma 95, specialmente quello riguardante la necessità di usare la sola telecamera a mano, come ha lavorato per la definizione dello spazio scenico?
Sembra difficile da credere, oggi, ma questo spettacolo era nato con una scenografia completamente diversa che abbiamo cassato dieci giorni prima dell’inizio delle prove, perché non dava lustro agli attori, li appiattiva, li schiacciava. Abbiamo quindi ricominciato tutto da capo, partendo dalla favola di Hänsel e Gretel che si vede ad inizio rappresentazione e che ha dato la stura alla riedificazione del progetto. In un primo momento, non avevo pensato di usare la telecamera sul palcoscenico (nonostante già in alcuni lavori passati lo avessi fatto), la scelta è nata in seguito, dopo aver fatto un’attenta riflessione con i miei attori sul modo in cui sarebbe stato più opportuno mostrare al pubblico il rapporto con potere e verità, che, come già ho suggerito, è centrale nella storia. Da quel momento in poi, abbiamo dato vita ad un gigantesco piano sequenza che si sovrappone a quello che fanno gli attori in scena creando due piani paralleli che costringono il pubblico a scegliere costantemente ciò che vuole guardare, fino a quando il velatino che abbiamo inserito in scena non cade definitivamente. Così facendo, secondo me, si è determinato un climax drammatico molto efficace.
Sempre in tema di stile: la resa visiva del campo-controcampo cinematografico sul palco alla quale ha dato vita è a dir poco affascinante. Come ha guidato gli attori per ottenerla? È stato complicato abituarli alla presenza della telecamera?
Quando abbiamo modificato lo spettacolo, lo spazio scenico si è progressivamente svuotato per favorire la capacità di alludere determinata dalla compresenza di telecamera e attori. Con quest’ultimi non c’è stato naturalmente nessun problema, perché i ragazzi de Il Mulino di Amleto sono molto coesi e open minded. Abbiamo scoperto tutti insieme come funzionava il “gioco” in scena, servendoci di una videomaker e di un light designer per definire quali dovevano essere i movimenti e quali le inquadrature da sovrapporre (non a caso, ognuno degli attori ha utilizzato e utilizza uno story board per ogni replica). Infine, abbiamo fatto in modo che la recitazione fosse il più “fine” possibile, che fosse quanto più sottile possibile per ampliarsi e comprimersi nello spazio.
Rispetto alla pellicola, il vostro spettacolo presenta una componente di (macabra) ironia spiccata e perdurante, anche nei momenti più drammatici della storia. Perché? Uno scarto voluto rispetto a Vintenberg o una semplice conseguenza?
Sì, c’è una certa costante ironia fin dall’inizio, ma non posso dire quanto sia effettivamente voluta e quanto più marcata rispetto all’originale. Forse dipende dal fatto che come spettatore di “Festen”, parlo del film ovviamente, l’ho sempre riscontrata nei suoi risvolti più oscuri. Alla fine, a ben riflettere, la storia che racconta, per quanto spietata e pregna di un cinismo senza fine, nel suo voler comporre un ritratto crudele del genere umano e della sua miseria, ogni tanto incappa in qualcosa che, paradossalmente, fa ridere. Pensiamo solo al fatto che, nonostante tutto ciò che si racconta, in scena e nel film, la festa che dà il titolo a entrambi va avanti imperterrita! Ecco, già solo questo dice tanto di come lo stesso Vintenberg abbia in qualche modo previsto una simile componente fin dall’inizio. E questo rende il suo lavoro ancora più favoloso, sconvolgente.
Il suo “Festen” si inserisce -con assoluta originalità, a parere di chi scrive- nel moderno filone di quello che potremmo chiamare “teatro cinematografico”. Come mai, secondo lei, questa sorta di tendenza si sta sviluppando così tanto? E, nel suo caso, risponde ad un’esigenza di superare certe convenzioni in ambito spettacolare?
Io parto sempre dal contenuto e mai dalla forma quando costruisco uno spettacolo. Questo, talvolta, mi porta a scardinare quegli approcci che possono essere considerati “classici”. E per riuscirci, mi servo di tutto ciò che ritengo opportuno. L’importante è che il risultato finale riesca sempre a determinare l’incontro tra attori e spettatori, a generare quel “rito” che è alla base del teatro come dovrebbe essere. Detto ciò, per noi de Il Mulino di Amleto ciò che conta di più è la suggestione e il modo in cui può essere rappresentata. “Festen”, in questo senso, deve essere considerato come un “nuovo classico” ed un esempio lampante di come il cinema possa allargare gli orizzonti di chi lavora nel teatro. Solo certo cinema, però, perché il discorso di “cassetta”, quello cioè di cavalcare stancamente l’onda di un grande successo sul grande schermo può risultare deleterio. In ogni caso, credo che ai giorni nostri il concetto di “repertorio” che nel nostro Paese a volte è così soffocante (pensiamo al fatto che, molto spesso, di alcuni autori, anche grandi, si rappresentano sempre le stesse quattro o cinque cose), vada assolutamente rivisto. E allargato a nuove scelte, verso nuove possibilità.
Uno dei capisaldi della vostra compagnia è: “Affrontare i classici come fossero testi contemporanei e affrontare i contemporanei come fossero testi classici”. Ci può spiegare cosa intende(te) e come questo motto programmatico si sostanzia nella prassi lavorativa?
Noi cominciamo sempre dallo stesso proposito, quando ci mettiamo al lavoro su un testo: cercare di scoprire se al suo interno c’è un’idea in grado di sopravvivere nei secoli, di superare certe contingenze temporali. Una volta individuata, riflettiamo sul perché possegga questa caratteristica. Parallelamente, ci chiediamo che mezzi sono stati utilizzati per rappresentarla e se anche loro hanno una capacità di sopravvivere nel tempo. Come è stato dimostrato, l’intelligenza umana, in termini di emotività, non è cambiata nel tempo: ecco dunque che, rispetto al IV secolo a.c., per dire, certe reazioni di fronte a determinati accadimenti sono sempre le stesse. Pensiamo al “cuore più oscuro” delle grandi tragedie classiche. Non è forse lo stesso anche oggi, una volta individuato? L’unica cosa che cambia sono, appunto, i mezzi che si utilizzano per mostrarlo, per andare incontro allo spettatore. Tirando le somme, quindi: se lavoriamo su un testo classico, una volta trovata la summenzionata idea, facciamo in modo di svilupparla con un linguaggio espressivo adatto alla nostra epoca; se lavoriamo invece su un testo contemporaneo, facciamo il percorso inverso, togliendo la “modernità” per arrivare al “cuore nero” di cui sopra.
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In chiusura: che succede dopo un’opera come questo “Festen”? Qual è il passo successivo?
Di sicuro, a livello di “virtualismo” teatrale, rappresenta la mia regia più spinta. Per un po’, forse, potrei aver bisogno di un rapporto con il palcoscenico meno mediato. Magari, invece, non andrà così. Magari incapperò in un progetto che, nonostante certi propositi di partenza, mi porterà a servirmi ancora di mezzi simili o ancora più tecnologici. Chi può dirlo? Vedremo.