Festa del Cinema di Roma: Kasia Smutniak regista per la prima volta
Per il suo esordio alla regia con il documentario Mur, l’attrice Kasia Smutniak si reca nella zona rossa proibita della Polonia per fare luce sulle politiche di confine del suo Paese e sulla crisi dei rifugiati nell’Ue.
Da bambina, la Smutniak giocava sotto la finestra della nonna, affacciata dalle mura di quello che mezzo secolo prima era il ghetto ebraico di Łódź.
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L’autrice ha sempre mantenuto uno stretto legame con il suo luogo di nascita, dove oggi è tornata, con un’attrezzatura tecnica leggera e l’aiuto di attivisti locali, per filmare un altro muro: quello al confine con la Bielorussia, la barricata d’acciaio di 186 chilometri, costruita per respingere i migranti che tentano di entrare nell’Ue in cerca di rifugio.
Mur sfrutta il ritmo di un thriller per documentare ed informare su muri insormontabili costruiti per dividere gli esseri umani. Un’indagine coraggiosa sull’ipocrisia dell’Europa moderna.
Un viaggio difficile da fare in due: con Kasia Smutniak c’era la sua co-autrice della sceneggiatura Marella Bombini, che quando possibile girava con un’attrezzatura più impegnativa.
Già: gran parte del documentario è girato con il cellulare, anche dalla stessa Kasia che portava un secondo cellulare nascosto in posti in cui la registrazione non era affatto permessa.
Inizialmente visto come un impedimento o uno strumento di fortuna, in realtà “il telefono è diventato uno strumento di quotidianità,” – spiega Marella Bombini – “qualcosa che esprimeva la realtà cui apparteniamo. Quando potevamo invece prendevo io la camera, anche perché mi piaceva mostrare lei, nella sua completa immersione in questa realtà assurda fuori dal mondo, facendo fatica a riconoscere il limite tra cosa fosse pericoloso fare e cosa no.“
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In realtà lo spettatore – che potrà vedere Mur al cinema da domani, 20 ottobre – può più facilmente identificarsi nel punto di vista di Marella che assisteva alle indagini di Kasia senza capire la lingua locale. Ma la regista afferma che proprio questo era l’obiettivo: “togliere la tragedia dal contesto e farla essere una tragedia in sé. Era più facile far identificare chi guarda in lei che non capisce cosa succede, che fa fatica ad inserirsi in un contesto così complesso. Marella è diventata la personificazione di uno sguardo puro che non ha bisogno di passare per il contesto.”
Kasia Smutniak rivela come l’aver affrontato questa “indagine” essendo due donne è stato vantaggioso “perché siamo state completamente sottovalutate: essendo Marella non polacca eravamo viste come giornaliste straniere e questo ci ha reso il lavoro più facile.“
Sembra difficile immedesimarsi e immaginare il rischio corso dalle due donne, che lo stesso Domenico Procacci, co-produttore e marito della Smutniak, ha riconosciuto solo dopo aver visto il lavoro in postproduzione.
“Ho avuto paura” spiega la regista “ma chi se ne frega: la paura mia non può essere messa a confronto con la paura di chi vive lì. Io non sono forte: non sono un supereroe capace di immagazzinare voci, foto, video e testimonianze a più non posso. Ho voluto dimostrare come questa non sia una debolezza.“
Aggiunge Kasia Smutniak: “Viviamo ogni giorno in un contesto in cui durante la nostra vita normale aprendo il giornale ti si ferma il respiro. Sei sui social e guardi i gatti o le stron*ate e poi ti esce un video che ti catapulta in una storia che non puoi concepire. Certo, le tragedie sono sempre esistite, sono nella nostra natura ma mai siamo stati così tanto a contatto diretto con le tragedie: oggi puoi trovare su tiktok un ragazzo che trasmette in diretta da Gaza e tu a casa diventi uno spettatore consapevole, che sa.“
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In quest’epoca così (in) diretta, la regista sceglie di non mostrare corpi massacrati ma il muro, il bosco “perché volevo raccontare le conseguenze della situazione non sui migranti ma sulle persone che vivono, anzi non vivono vicino a quella zona. Sulle persone come me e su quelle che invece fanno di tutto per portare un pasto caldo nel bosco o semplicemente un sorriso.“
Conclude così Kasia Smutniak: “Vorrei che le persone che vedranno il film in sala da domani riuscissero a soffermarsi un attimo sui tempi in cui viviamo, facendo un collegamento con il passato, con il nostro bagaglio culturale e personale. Il film su chiama Mur: i muri sono diventati una fotografia del momento che viviamo. Proprio in questi giorni ci appare molto evidente cosa può creare il chiudersi dietro un muro e perdere il contatto con gli altri esseri umani. Riflettete.”
(Foto: Festa del Cinema)