Fenomenologia del processo popolare
In questi giorni in cui il video di Beppe Grillo sta spopolando sul web, bisogna fare un attimo ordine sull’idea di processo.
Se da un lato abbiamo un padre che tenta una disperata difesa del figlio, dall’altra abbiamo una mancanza di tatto e di rispetto per la vittima o presunta tale. Mi permetto di dire “presunta tale” perché vivendo in uno Stato ancora garantista, fino a prova contraria chiunque sia indagato, per qualsiasi reato, è innocente. La presunzione di innocenza è la base del nostro ordinamento giuridico. Sebbene sia meglio parlare di presunzione di non colpevolezza poiché il processo “è il mezzo mediante il quale alla presunzione d’innocenza si sostituisce quella di colpevolezza”.
Il che, sembra scontato ma è meglio ribadirlo, non vuol dire dare del bugiardo all’accusatore ma cercare di avere una visione quanto più oggettiva e scevra da emozioni.
Il processo dunque. Come quello mediatico a cui stiamo assistendo. Il gran Tribunale di Facebook, composto da giudici laureati presso l’Università della Strada a suon di buongiornissimo kaffe e gattini della buonanotte, sembra infatti già essersi espresso a favore della colpevolezza del figlio di Grillo e dei suoi amici.
Il tutto, bisogna sottolinearlo, sembra un contrappasso per chi, in anni di urla, ha costruito la sua fortuna sulla gogna mediatica.
A questa però si sta sottoponendo quasi autonomamente la parte in causa continuando a parlare a destra e manca invece che mantenere riservatezza aspettando il responso del Giudice.
Lungi da me, comunque, scrivere sulla vicenda in questione. Voglio invece approfondire, tramite la letteratura e la cinematografia, il tema del processo mediatico e della gogna a cui sono sottoposti personaggi più o meno famosi. Perché, si sa, quando qualcuno passa dalle stelle alle stalle il povero, d’animo non economicamente parlando, ride sotto i baffi. Come una iena.
“IL PROCESSO” DI KAFKA COME DISAMINA DELL’UMANITÁ
“Il Processo” è l’opera più famosa di Franz Kafka, un romanzo incompiuto scritto tra il 1914 e il 1917 in cui emerge bene il concetto di ricerca della colpa più che del colpevole. Un libro che è tutta un’allegoria in cui l’umanità vive una condizione assurda, smarrita, insensata, disorientata.
Kafka rappresenta il mistero, l’enigma della vita, con il Tribunale. Quel sistema burocratico che sorveglia, accusa, processa e condanna gli uomini che a suo parere commettono colpe.
Josef K., il protagonista che simboleggia l’umanità, invece insegue la verità. Questa gli sfugge di continuo. È inafferrabile, tanto da diventare un enigma. Si tramuta nel mistero che grava continuamente sull’umanità come un potere oscuro e indecifrabile. Ed è proprio all’inizio del romanzo che questa incognita già muove i suoi primi passi: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto nulla di male, una mattina fu arrestato”.
Come afferma Josef K.: “La questione principale è: da chi sono accusato? Quale autorità istruisce il procedimento?”. Esattamente come avviene oggi quando si attiva la macchina del fango. Il protagonista del romanzo morirà, accoltellato dalla polizia in una cava, senza sapere il motivo della sua accusa. Verrà praticamente dimenticato. Il che rispecchia ciò che accade quando si sprecano titoloni e pagine per annunciare un presunto reato di un presunto colpevole. La verità diventa secondaria. E’ più importante lo scoop. Il clamore. Poi, qualora si arrivi ad una sentenza discolpatrice, questa notizia avrà meno risalto. E’ un meccanismo subdolo ma intrinseco nella nostra società.
IL BESTSELLER DI DICKER (SPOILER ALERT!)
Molto più recente è il romanzo del 2012 di Jöel Dicker “La verità sul caso Harry Quebert”. La storia di questo scrittore, ex professore caduto in disgrazia per un’accusa di omicidio di una minorenne con la quale aveva intrattenuto una relazione anni prima, è stata portata sullo schermo dal regista Jean-Jaques Annaud. La miniserie ha visto Patrick Dempsey nel ruolo proprio di Harry Quebert.
Purtroppo dovrò fare uno spoiler, ma sarà utile ai fini dell’argomentazione. Si scoprirà infatti che l’assassino non fu lo scrittore che però dovette subire carcere, insulti, gogna mediatica. Il tutto prima di un processo regolare, ovviamente. Mantenne però una certa tranquillità e riservatezza conservando per sé i momenti felici che passò con la ragazza. Nessuno all’interno del romanzo, tranne il suo allievo Marcus Goldman che riuscirà a scovare la verità cercando così di riabilitarne la figura, si preoccupò di analizzare la vicenda o di aspettare per dare un giudizio. Tutti erano sicuri della sua colpevolezza. Gli abitanti della cittadina, che fino ad allora portavano Quebert su un piedistallo, erano sicuri della sua colpevolezza. Tutti i suoi lati del carattere erano diventati di colpo dei palesi indizi dell’essere un poco di buono. Uno stupratore. Un molestatore. E anche un pedofilo, considerata l’età della ragazza.
Il romanzo di Dicker, che pur essendo di circa 800 pagine è difficile da smettere di leggere, parla proprio di quello di cui sopra. Il dare un giudizio, condannare qualcuno senza averne le prove. Il partire da una presunzione di colpevolezza invece di garantire la salvaguardia dell’immagine e della dignità persona.
Ma se la vulgata è difficile da controllare la deontologia di chi veicola informazioni dovrebbe quantomeno rendersi super partes. Evitando così di alimentare voci che riguardano, bisogna non dimenticarlo, un’accusa di stupro. Poiché qualunque sarà il responso nessuno ne uscirà vincitore.
Photo by Aditya Joshi on Unsplash