Federico Fellini e il film che non girò mai
“Questo è Mastorna, un violoncellista, l’eroe del mio film. Doveva iniziare così, con un atterraggio di fortuna al centro di una città sconosciuta.” Nel 1967, Federico Fellini aveva tutte le intenzioni di girare, come prossimo film, questo ‘Viaggio di G. Mastorna, detto Fernet’ che invece, per una serie di circostanze, attese, ritardi, contrattempi, non vide mai la luce. L’incipit è folgorante: un aereo in partenza da una capitale del nord Europa, è costretto ad atterrare per l’insistenza di una bufera di neve. Avvolto dalla tormenta, il protagonista, accompagnato dal suo violoncello, scende e cammina per la piazza spettrale di questa città. Domina, su tutto, una cattedrale gotica di cui non si vede la fine.
E pare che a seguito di questa sequenza – l’unica girata da Fellini – ce ne fossero pronte già altre due: uno spettacolo di danza del ventre, che si chiudeva con il parto improvviso della danzatrice davanti un pubblico gremito ed estasiato, e l’annuncio di uno schianto aereo da parte di un notiziario tedesco. La sceneggiatura, ad oggi, finisce qui, ma tanto ci basta per comprendere le intenzioni del regista riminese: secondo le parole dello stesso Fellini, il film sarebbe ‘la storia di un uomo che è morto, ma non lo sa’.
Un progetto che nasce subito dopo due grande successi – ‘La dolce vita’ e ‘8 e ½’ – e che non manca di altrettanta ambizione. Dietro Fellini, c’è la figura di Dino De Laurentiis. Un rapporto controverso, quello tra i due: successi, premi, ammirazione reciproca, ma anche liti, frequenti rotture e citazioni in tribunale. Non era difficile, a quei tempi, leggere sul giornale titoli come: ‘Fellini e De Laurentis fanno la pace’, oppure: ‘Rottura tra Fellini e il produttore De Laurentis’. Ed è proprio quest’ultimo a bloccare, per la prima volta, il progetto di ‘Mastorna’.
Nel documentario del 1969 ‘Block-notes di un regista’, Federico Fellini ci mostra per la prima volta le impalcature per alcune delle scenografie del film: lo scheletro di un aereo, fermo su una pista circondata dalla campagna, e poi un gabbiotto e la cattedrale imponente. Fellini tenta più volte di realizzare il viaggio del suo orchestrale: il regista conosce Milo Manara nel 1963, e insieme realizzano due fumetti.
Il secondo, in ordine cronologico, è proprio la trasposizione di ‘G. Mastorna’, che vedrà la collaborazione dei due artisti pubblicata da ‘Il Grifo’ nel 1992. Anche in questo caso, la collaborazione termina prima dei tempi previsti: per un errore della casa editrice, una delle tavole di Manara riporta la scritta ‘Fine’, nonostante mancassero ancora due volumi al termine dell’opera. Federico Fellini, prendendolo come un segno del destino, decise di accantonare il progetto e di chiudere le collaborazioni con Manara.
Ciò che rimane, al termine di questa piccola epopea produttiva, è l’idea alla base, che ancora affascina nonostante gli anni, e nonostante il fatto che sia rimasta, per l’appunto, solo un’idea: un uomo che vaga in un limbo etereo – oggi diremmo ‘felliniano’, non a caso – dove non esistono dimensioni funeree né paesaggi dell’oltretomba, dove la figura femminile di una hostess ricopre i panni del Caronte, traghettatore di anime, attraverso una slitta che conduce a un albergo, alla dimensione dell’Altrove.
Alle poche righe di sceneggiatura, possiamo aggiungere gli elementi che Fellini inserisce negli scampi epistolari con De Laurentis: secondo i piani originali di Fellini, la danzatrice del ventre, prima ancora che una donna gravida, doveva essere un trans che infastidiva Mastorna, al punto da indurlo a lasciare la hall dell’albergo. Ancora, in una scena successiva, Mastorna avrebbe vagato per i corridoi lunghi e vuoti dell’hotel sommerso dalla neve, con le finestre che danno sul nulla, con dei silenzi spettrali, e poi sarebbe stato assalito dalla voglia di ritornare a casa, da sua moglie.
Imbastendo il viaggio di ritorno, però, accadono due imprevisti: è qui che, più che in ogni altra sequenza, riconosciamo Fellini: l’incontro con un amico di vecchia data, morto molti anni prima, e l’arrivo di una donna angelica, la Beatrice di questo film mai realizzato, che nella testa di Fellini doveva avere il volto della cantante Mina. Ancora: “Una vera bolgia di corpi umani, convergenti in una medesima direzione, e nella loro caduta, non privi di disinvoltura e di brio. Ma dopo essersi spappolati, si sollevano e pieni di slancio, tornano a salire verso le rampe, per poi precipitarsi di sotto, di nuovo a capofitto”. In questa scena, il personaggio centrale è Armandino, un disperso come Mastorna, che il protagonista incontra in un night, dopo essere svenuto.
Armandino è l’anima che più di tutte sembra conoscere le regole del limbo: i morti, essendo tali, non provano dolore fisico. Per questo, nella scena prevista da Fellini, centinaia di morti si sarebbero gettati dal tetto di un night, finendo sull’asfalto, senza scalfirsi e anzi provando un certo divertimento, unito a una nota splatter inedita per Fellini, ma che rispondeva di certo al gusto gore che in Italia dominava la scena horror di quegli anni. Poco dopo, in un cimitero, la vena horror sarebbe stata pizzicata ancora, con un risveglio dei morti sottoforma di zombie.
Il film diventa così, nella testa di Fellini, un circo diffuso, ed è così che immaginava probabilmente la morte, con le sue figure femminili vivide, carnali, e tutt’attorno il mondo etereo delle anime perse, sommerse da una neve che ci ricorda, come intervento celeste, ‘I Morti’ di James Joyce, di cui abbiamo recentemente parlato. Per queste ragioni, e per molte altre, un critico molto legato a Federico Fellini come Vincenzo Mollica, ha voluto definire questo film come ‘Il film mai realizzato più famoso al mondo’.
Ci sentiamo di condividere l’entusiasmo che, dopo anni, ancora ci smuove un sentimento di affetto, per il regista che fu. Oggi, di quel regista, rimangono le impalcature a cielo aperto, le macerie del circo che appare travolto, come l’Italia scomparsa di quella stagione, da un inverno perenne.