“L’alieno, il Califfo e la bambina”, il disco di Eugenia Martino con la benedizione di Mogol
La musica, un sistema di simboli universale che racconta emozioni e segna i cuori degli ascoltatori con quella capacità di scoccare significati pungenti che nessun altro linguaggio potrà mai eguagliare. Questo è ciò che si avverte ascoltando l’album “L’alieno, il Califfo e la bambina” di Eugenia Martino, cantautrice romana, che vanta le firme del grande autore di canzoni Mogol alla produzione esecutiva e di Massimo Satta alla produzione artistica. Il disco racconta storie di vita vera, riflessioni messe in musica, crude poesie di realtà.
Come nasce la tua carriera musicale?
Nasce sicuramente ai tempi del liceo con la mia band. Avevo il sogno di fare la rock star, tant’è che decido di trasferirmi a Bologna per suonare in una band Hard Rock. Conclusa la parentesi bolognese, inizio a scrivere pezzi miei, da sola, ma mi allontano molto dall’ambiente musicale. In un certo momento, però, conosco Mariagrazia Fontana, una vera professionista nel settore, e mi esorta ad incidere delle canzoni. Quindi, all’età di 28 anni, inizio a decollare. A 31 anni arrivo alla scuola di Mogol: lì c’è stato un vero e proprio colpo di fulmine artistico e vi sono rimasta come insegnante e come autrice. Infatti, insieme a Mogol ho prodotto questo album, con delle canzoni, a nostro parere, non piazzabili ad altri artisti.
C’è stato un episodio in particolare che ti ha fatto capire di voler fare questo mestiere nella vita?
È stata sempre un’attitudine naturale, non ci ho mai pensato. Non ti so dire quando è nato, era già lì, insito in me.
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In una recente intervista hai fatto riferimento agli anni di faticosa gavetta, quanto sono importanti quei gradini da scalare al fine di una crescita professionale e personale?
Fino a poco tempo fa pensavo fossero molto importanti. Di questi tempi, con questa società, non lo so più. Ho fatto 15 anni di gavetta prima di incontrare Mogol. Ora i ragazzi caricano canzoni che entro un anno escono. Questo è un bene ma penso che questi ragazzi abbiano perso tutta l’esperienza del live: io suonavo nei locali e nessuno ti calcolava perché intenti a consumare quanto ordinato al loro tavolo. Il passaggio e la gavetta sono importanti per una crescita personale, per i contatti, per l’esperienza e, soprattutto, per gli sbagli che si commettono. Adesso, ci sono ragazzi che vanno a Sanremo con una quantità di live che si contano a stento sulla punta delle dita. Tutti bravissimi artisti ma con poche esperienze live. Voglio dire, si parla di una dimensione completamente nuova e diversa. Adesso è tutta una corsa verso il successo ma non verso la musica.
Secondo te si è perso quell’entusiasmo verso i traguardi raggiunti, nelle nuove generazioni?
Adesso ci sono le cosiddette canzoni Take away che durano tre mesi al massimo. Non escono più gli ever green. I tormentoni estivi, le stesse canzoni di Sanremo, sono tutte fugaci. Ovviamente, questo fenomeno rispecchia la società di adesso; abbiamo un consumo totale che dura pochissimo, una soglia dell’attenzione minima. Una società super liquida.
Arriviamo al tuo album “L’alieno, il Califfo e la bambina”: fin da subito si ha l’impressione di leggere un libro di storie, di biografie. La sensibilità di chi ascolta empatizza con il protagonista della canzone. Era proprio questo l’obiettivo?
Esattamente questo. Volevamo far entrare le persone all’interno delle storie, far viaggiare l’ascoltatore nella vita del personaggio, un po’ come quando si guarda un film o si legge un libro. Non si tratta di autobiografie ma di racconti di vite.
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Nonostante questo, c’è un brano che ti rispecchia?
La canzone “E allora” è un po’ il racconto della mia infanzia, raccontata in maniera distaccata nei panni di una bambina che non riesce a percepire l’idea del bullismo; non lo capisce e quindi se ne disinteressa completamente.
Ci sono sicuramente degli spunti biografici che però cerco di trattare nella maniera più impersonale possibile.
Per quanto riguarda la collaborazione con Massimo Satta e Mogol?
C’è sempre stata un’amicizia alla base del lavoro. Ho sempre messo l’aspetto umano davanti alla musica, ed è per questo che non ho avuto questo grande exploit (ironizza). Sono contenta così, però. Quando ti capita una cosa bella in età più matura, queste relazioni sono le cose che ti restano. Il disco non è sicuramente Disco D’Oro ma è un prodotto fatto in un momento di grande passione e condivisione; questo disco rimane e questa sensazione è impressa nel legame con Massimo Satta e Mogol. Questa è musica, ovvero, lasciare un segno anche solo in una persona. Sapere che quel tuo lavoro ha toccato le corde del cuore è la soddisfazione più grande.
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