Enzo Tortora, dall’errore giudiziario alla gogna giornalistica
Erano le 4 del mattino del 17 giugno quando i Carabinieri bussarono alla porta di uno dei volti più noti della televisione italiana. Enzo Tortora, il noto presentatore, autore e giornalista.
Era accusato di far parte della Nuova Camorra Organizzata. Addirittura di essere un corriere della droga. Solo 4 anni dopo, con 7 mesi di carcere e altri di domiciliari, fu scagionato da ogni accusa.
Divenendo così il simbolo dell’errore giudiziario. Tortora era all’apice del successo. Il suo “Portobello” registrava ascolti da capogiro, circa 28 milioni di spettatori. Si apprestava a firmare il contratto per una nuova edizione. Ma non sapeva della bomba che stava per scoppiare mentre alloggiava all’Hotel Plaza di Roma. “Mi hanno fatto esplodere una bomba atomica dentro”. Così commento tutta la vicenda.
PENTITI E AGENDINE CONTRO TORTORA
Fu uno degli 855 ordini di cattura emessi dalla Procura di Napoli nei confronti di presunti affiliati alla nuova Camorra Organizzata, capitana da Raffaele Cutulo.
Le accuse furono mosse da due pentiti. Pasquale Barra e Giovanni Pandico. A costoro si aggiunsero poi altri 17 testimoni che confermarono e infarcirono ancor di più le accuse. Si scoprì in seguito che pentiti e testimoni potevano liberamente comunicare mentre erano nella caserma di Napoli. Oltre a godere di numerosi benefici in carcere. Tra le prove che inchiodarono l’uomo di spettacolo fu una agendina con il suo nome.
Ma in realtà vi era scritto Tortona e non Tortora. Il 17 settembre 1985 il presentatore fu condannato a 10 anni di reclusione per associazione a delinquere di tipo mafioso e traffico di stupefacenti. Nell’appello il 15 settembre 1986 altri giudici napoletani ribaltarono la sentenza assolvendolo con formula piena. Durante il primo processo viene eletto europarlamentare nelle file dei Radicali, diventando poi presidente del partito. Quando si dimise scatenò l’ira di Marco Pannella.
Enzo Tortora, fotografato ammanettato e sbattuto in prima pagina, è stato uno dei simboli della gogna mediatica gratuita. Del processo su Facebook ante litteram. Delle sentenze date a priori. Un colpevole che fa notizia. Poco importa se colpevole o innocente. Nonostante la giurisdizione italiana preveda la presunzione di non colpevolezza.
Ma come disse la figlia Silvia “è stato prelevato dalla sua vita senza che venisse aperta una commissione d’inchiesta, senza che nessuno pagasse per quell’errore”.
IN POCHI CONTRO LA GOGNA MEDIATICA
All’epoca furono in pochi a leggere tutte le carte. A credere alla sua innocenza. Tra questi Vittorio Feltri che andò a leggere gli infiniti plichi di quel processo. Da lì capì che qualcosa non andava. Innanzitutto uno degli accusatori, tale Melluso accusava di aver avuto un incontro a Milano con Tortora per uno scambio di droga. Il giornalista, tramite le sue conoscenze, riuscì a risalire al fatto che il suddetto delatore all’epoca era detenuto nel carcere di Campobasso.
Non contento Feltri andò a rintracciare le fotocopie della famosa agendina sulla quale era appuntato il nome del presentatore tv con annesso numero telefonico. Ma alla telefonata, con sua sorpresa, rispose una persona dall’idioma campano.
Due falle in un processo già nato anomalo. Molti giornalisti si erano sperticati in articoli contro Tortora. Sicuri della sua colpevolezza.
E difatti il 17 settembre del 1985 la condanna non lasciava scampo. Fu solo nella sentenza di appello, quella del 1986, ad assolverlo con formula piena.
Ma ormai l’immagine del presentatore di “Portobello” era compromessa. Il fatto che fosse un vip ad essere rovinato, in parte, aumentò l’odio dell’opinione pubblica. Quella grande fetta di di persone che godono nel vedere rovinato uno che ha avuto successo.
Forse solo dopo oltre 30 anni il nome di Tortora sta avendo una riabilitazione a pieno.
“Dunque, dove eravamo rimasti?”. Con questa frase, nel 1987, tornò a condurre il suo programma. Un anno prima della sua morte. Una frase che voleva quasi dimenticare quello che era successo. Ma che ormai lo aveva segnato dentro, come lui stesso aveva detto.
Il suo caso portò alla legge Vassalli. La quale però non fu retroattiva e non diede né a lui né alla sua famiglia un risarcimento. L’unica cosa che rimase ai suoi parenti fu il grande dolore provato per uno dei più grandi errori giudiziari italiani.