Enzo Jannacci, l’anima meneghina che tra ironia e musica parlava agli ultimi
Pianista e cantautore, sceneggiatore e umorista. Anche medico, cardiologo per la precisione. Enzo Jannacci è stato tutto questo e molto altro. Artista poliedrico e versatile, con i suoi versi ha segnato la storia della musica italiana nella seconda metà del Novecento. Anima meneghina e cuore tricolore, assieme a Giorgio Gaber, compagno di carriera e di scuola, conosciuto da adolescente al liceo classico Manzoni della città lombarda, è stato la voce di una Milano che adesso stentiamo a riconoscere: non quella dei grattacieli e della vita frenetica, ora lussuosa ed esclusivista, ma quella dei bar e delle stradine, dei personaggi eccentrici e genuini e dello stile di vita romantico e misurato.
Parole, le sue, pungenti e taglienti, da cabarettista sopraffino e da profondo conoscitore della lingua italiana, in grado da nascondere messaggi e denunce sociali in brani apparentemente scanzonati e leggeri. Jannacci è stato un precursore del nonsense musicale e dell’umorismo raffinato, spesso talmente elevato da non essere mai del tutto riconosciuto e, per questo, compreso. “Vengo anch’io, no tu no“, tra le canzoni simbolo del cantautore milanese, potrebbe considerarsi l’antonomasia del suo stile: un testo che parla degli ultimi, dei reietti, degli emarginati e dei messi da parte. Scritto assieme a Dario Fo e Fiorenzo Fiorentini, è incluso nell’omonimo album del 1968 (in cui sono presenti altri successi come “Giovanni telegrafista”, “Ho visto un re”, “La mia morosa la va alla fonte”). In “Un nano speciale” e “L’artista” Jannacci parla di individui miseri, patetici ed emarginati.
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Un brano politico, d’impegno sociale, di ponte tra il jazz, il pop e il rock’n’roll, genere di cui è stato considerato anche tra i massimi esponenti della scena italiana. Osservando alcune foto in bianco e nero di lui da giovane, con la montatura degli occhiali spessa e nera, il sorriso sornione e lo sguardo dolce, Jannacci ricorda Buddy Holly, il chitarrista e cantante statunitense icona del r’n’ degli anni Cinquanta che morì a ventitré anni a causa di un incidente aereo. Su quel mezzo era presente anche Ritchie Valens, indimenticabile autore de “La Bamba”, in quello che, al tempo, venne definito come “The Day that Music Died“, cioè “Il giorno in cui la musica morì”.
Il regista Filippo Crivelli, che nel 1962 scritturò Jannacci per lo spettacolo “Milanin Milanon” in scena al Teatro Girolamo, alzo notevolmente l’asticella arrivando a dichiarare che “lui (Jannacci, ndr), è un artista del calibro di Charlie Chaplin“. Un paragone forte, forse azzardato vista la distanza tra i due, non solo cronologica ma anche di estrazione artistica, che però non destò particolare stupore. Al tempo il cantautore era in rampa di lancio e teatro e cinema erano dimensioni alle quali stava approcciando mettendo in mostra l’enorme talento di cui era in possesso.
Nel brano “Sei minuti all’alba“, Jannacci affrontò il tema della Resistenza, a lui caro per via dei trascorsi del padre nelle milizie partigiane durante la Seconda Guerra Mondiale. La canzone è dedicata al genitore e a chi, come lui, visse in prima persona quella drammatica esperienza. Un testo drammatico, che parla dei minuti che separano il partigiano catturato dai nemici dalla fucilazione che porrà fine alla sua vita e che avverrà all’alba. Il tema della guerra è raccontato anche in “Soldato Nencini” dove il cantautore parla delle difficoltà che un soldato meridionale ha nell’integrarsi ad Alessandria dove è di stanza.
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Etichette e confini, schermi e barriere, sono sempre stati un limite per l’Enzo Jannacci artista, lui che ha esplorato e navigato attraverso della musica, innovato e cambiato l’approccio all’ironia e alla provocazione. Verso la fine degli anni Settanta assieme all’amico d’infanzia Beppe Viola, giornalista e scrittore assai arguto e di grande estro, fondò il Gruppo Repellente, un gruppo di talentuosi cabarettisti uscito dal Derby Club di Milano. Da quel locale emersero diversi maestri della comicità come Massimo Boldi, Diego Abatantuono, Giorgio Porcaro e Giorgio Faletti. Insieme diedero vita a pagine indimenticabili di comicità e intrattenimento, sia in teatro che in radio.
Di artisti come Enzo Jannacci ne escono sempre di meno, soprattutto in un’epoca in cui tutti si preoccupano di dire qualcosa ma non di come dirlo, questo qualcosa. La forma prevarica sempre di più la sostanza in un music business fatto a uso e consumo dell’usa e getta: cosa resterà di molti degli attuali cantautori lo sapremo in futuro, a cose fatte, quando ci guarderemo indietro e valuteremo la loro eredità provando a contestualizzare il loro impatto artistico sugli anni che vivremo. Ma una cosa è certa, di Enzo Jannacci non ne nascono più.