Enrico Guarnieri e l’amore viscerale per Giovanni Verga: l’intervista all’attore catanese
Meraviglioso protagonista de “La Roba” diretto da Guglielmo Ferro e andato in scena con successo al Quirino la scorsa settimana, Enrico Guarneri si prepara a portare la novella-capolavoro di Giovanni Verga anche sul palco del Teatro Sociale di Brescia da domani fino al 19 marzo. Dopo aver assistito alla sua commovente interpretazione di Mazzarò nello storico teatro di Via delle Vergini 7, lo abbiamo raggiunto telefonicamente prima della trasferta in terra lombarda per parlare un po’ dello spettacolo e del suo mestiere d’attore. Ecco cosa ci ha raccontato.
Ancora Verga dopo “Mastro Don Gesualdo” e “I Malavoglia”. Ci racconta, da catanese, cosa significa per lei portarlo in scena? Qual è (se esiste) il legame particolare che si crea con questo immenso autore suo conterraneo?
Il legame che ho con lui è a dir poco viscerale, lo sento proprio nel sangue. D’altronde la città di Catania lo ama e io da catanese non posso fare certo eccezione. Quello che scrive, quello che ci fa vedere oserei dire, è la realtà nuda e cruda, senza troppi giri di parole. Verga fotografava la vita, soprattutto quella di campagna, dei suoi tempi e ce la restituiva per quello che era: vale a dire una lotta tra “pietre” che cozzavano tra di loro, fino a quando quella più dura e resistente non aveva ragione definitivamente, crudelmente dell’altra. Nel profondo delle loro anime, io non credo che gli uomini siano tanto cambiati rispetto a quei tempi, anzi ritengo che siano in qualche modo profondamente immutati. Ecco, la grandezza di Verga è stata quella di aver catturato certe loro peculiarità eterne.
La sua forza attoriale in scena è straripante, nonostante non si manifesti in una performance fisica o vocale dirompente. Ci spiega come riesce a dar vita ad una recitazione a dir poco energetica? Come si diventa un Mazzarò così indimenticabile?
È l’alchimia che il teatro sa innescare, non saprei dire meglio. Pensiamo ai vecchi attori o a quelli che, magari, sono malati, in condizioni fisiche precarie: una volta che tu li metti sul palco, nonostante qualsivoglia tipo di acciacco o di limitazione imposta dall’età, succede quasi sempre che riescano a recitare senza problemi, ad esser in grado di dar vita a dei personaggi sani e credibili. Come spiegare questa cosa? Per quanto concerne “La Roba”, quando entro in scena, ogni volta che entro in scena, mi calo completamente in Mazzarò, iniziando ad odiare i colleghi che recitano con me per far emergere la natura irriducibilmente aggressiva di Mazzarò.
Penso, come il personaggio di Verga, che ognuno di loro mi voglia fregare. È da questa opposizione insistita e inscalfibile che prende forza la mia interpretazione. Si generano dei meccanismi che vanno al di là di qualsiasi discorso o spiegazione tecnica che uno possa fare. Assistendo allo spettacolo, non si può far a meno di rilevare l’estrema funzionalità della scenografia (realizzata da Salvo Manciagli) rispetto ai vostri movimenti-non movimenti e alla vostra presenza-assenza in scena.
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Quanto l’ha aiutata nello strutturare la sua parte e a trovare i tempi giusti? E, più in generale, come si “costruisce” lei nello spazio?
Con Gugliemo Ferro c’è ormai un grande feeling fin dalla nostra prima esperienza verghiana condivisa. Per questo, già prima delle prove, parliamo molto di come dovrà essere la scena e di come dovrà funzionare. Questo mi aiuta molto, riesco ad essere molto intuitivo poi nel trovare le mie corrette “posizioni” sul palco ed è raro che lui debba intervenire in qualche modo per correggerle o per creare certi meccanismi. Come accennavo anche prima, capito certo da farsi, senza presunzione, trovo tutto quello che mi serve e abbastanza agevolmente da me. E so che ogni azione deve legarsi a quella precedente e successiva per mantenere un continuum organico interpretativo e narrativo.
A proposito di tempi scenici: per lei che si cimenta da tempo sia in ruoli comici che drammatici che differenze rileva nel trovare quelli giusti in un ambito e nell’altro?
Nel comico i meccanismi sono molto più delicati rispetto al drammatico, basta davvero poco per perdersi, anche una sola battuta. Inoltre il comico, per essere ben sviluppato, presuppone quasi sempre la presenza funzionale, e sostanziale, di una spalla. Se non c’è, il rischio di uscire fuori o anche solo di rovinare i tempi in scena è molto concreto. “Il comico e la spalla”, no? Il fatto che questa frase si sia in qualche modo cristallizzata nell’immaginario collettivo dà la misura di quanta verità contenga.
Il successo che ho ottenuto con la mia maschera Litterio Scalisi, per esempio, deve molto alla mia “spalla” Salvo La Rosa. Senza di lui, senza le sue domande, le sue introduzioni, con ogni probabilità non risulterebbe così efficace come invece viene considerato. Nei ruoli drammatici questo aspetto è, a parer mio, meno importante. In ogni caso, dopo aver lavorato per trent’anni nel solo ambito comico, ho avvertito un bisogno quasi fisiologico di dire qualcosa di più “serio”. In questo passaggio di genere, devo dire che ha avuto un’importanza fondamentale l’aver avuto a che fare con certi testi di Eduardo, perché nei suoi strabilianti lavori il trapasso tra il comico e il drammatico è sempre in qualche modo programmato ed aiuta a farsi le ossa. In ogni caso, dopo circa una decina d’anni dal mio primo ruolo drammatico, credo di trovarmi ormai a mio agio in entrambi i contesti.
Che cosa è “la roba” nel 2023? In che modo, formale e sostanziale, è cambiata la sconfitta del “vinto” di cui parlava Verga ai suoi tempi?
Direi innanzitutto che, pur essendo cambiati gli oggetti del desiderio, non è certo cambiata la volontà di possesso da parte degli uomini. Se ai tempi di Mazzarò le persone volevano terra o ulivi, oggi le persone vogliono macchine o telefonini. La differenza sta forse nel terribile trionfo del superfluo al quale ogni giorno che passa siamo sempre più costretti ad abituarci. È qualcosa di davvero perverso e che, non di rado, è in grado di mettere in ginocchio l’intera società, oltre a distruggere moltissime famiglie.
Ciononostante, c’è da dire che si tratta di un fenomeno molto umano. Come diceva Parini ne “La Caduta”: <<Umano sei, non giusto>>. Ecco, la spiegazione è tutta qua. E va accettata. Come vanno accettate molte brutte cose, a volte terribili. Essere un uomo significa arrendersi al fatto di essere un cocktail di arrivismo, invidia, odio. Significa rassegnarsi a quel “tutti contro tutti” che Verga, come forse nessuno, è stato in grado di farci dolorosamente vedere (e non è un verbo casuale) con le sue opere.
Per tanti anni, prima di diventare un attore professionista, lei ha continuato a svolgere un lavoro normale. Dove ha trovato la forza per difendere la sua passione così a lungo e qual è stato il momento in cui ha capito di voler fare il “grande salto”?
Ho debuttato nel teatro amatoriale a 23 anni, quando ero già sposato e facevo il geometra per mantenere la mia famiglia. Da quel giorno, proprio da quel primo giorno direi, si è accesa in me la “fiamma” della recitazione. E di lì in poi è letteralmente divampata, trasformando il teatro nella cosa più importante della mia vita dopo la famiglia. Certo, sono sincero: se fin dagli inizi della mia carriera da amatore non avessi ottenuto costanti, entusiastici riscontri da parte del pubblico e dei registi con cui ho lavorato, non so se avrei mai pensato di poter diventare un professionista. Però è quello che è accaduto, tutto mi hanno sempre incoraggiato in questo senso. E dopo l’esplosione del fenomeno Litterio Scalisi in tutta la Sicilia, ho deciso che non potevo più tirarmi indietro. Da quel momento in poi, per fortuna, tutto è stato facile.
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A teatro, è ormai considerato un interprete di vaglia. Le piacerebbe avere un’occasione per dimostrare la sua bravura anche al cinema? E attraverso quale tipo di pellicola o di regista dovrebbe passare?
Ci sono tre diversi tipi di cinema, io li chiamo di serie A, di serie B e di serie C. Ecco, a me interessa davvero solo il primo, quello di gente come Fellini o Monicelli o di Pupi Avati o di Sorrentino, di quei registi, insomma, che attraverso le loro inquadrature hanno saputo creare dei racconti meravigliosi, senza tempo. Parliamoci chiaro: nella settima arte le possibilità narrative, espressive, grazie al forte sostegno della tecnologia, sono nettamente superiori a quelle del teatro, che, in fondo, ha solo la parola per spiegare.
Certo, c’è da dire che quella stessa tecnologia è anche la responsabile dell’assassinio del cinema convenzionale, del cinema come “rito” al quale molti di noi sono abituati. Le sale (che nei multisala odierni mi sono sempre sembrate come gli interni di un autobus o di una carlinga d’aereo, ad essere sinceri), con questo dilagare di home tv dagli schermi giganti e impianti sonori molto performanti, verranno presto soppiantate definitivamente. Anche di questo bisogna farsene una ragione. Comunque, ritornando al discorso iniziale, se arrivasse un’occasione per fare cinema di serie A, di certo non esiterei, ci mancherebbe!