Elvis, “The rock n’roll matador”. Una carriera segnata dalla chiamata alle armi
Elvis Presley non è stato un semplice musicista o una semplice icona. Lui è stato di più: un’esplosione rivoluzionaria pari a quella di un Big Bang. In molti gli attribuiscono la nascita del rock, per lo meno come lo conosciamo noi. E probabilmente è vero. Elvis Aron Presley from Tupelo, Missisippi, ha stravolto i canoni della musica, li ha ingigantiti e portati a un livello mai visto prima.
Elvis “The Pelvis” – soprannome dettato dalla tipica movenza del bacino – era destinato a essere il più grande, nonostante non si sia mai esibito fuori dagli Stati Uniti (a eccezione di qualche show nel confinante Canada). Un talento puro, cristallino, evidente fin dalla tenera età.
Fin quando, a due anni, si aggregò al coro delle Assemblee di Dio del suo paese, la funzione religiosa in voga in quegli anni. La leggenda narra che, una volta dentro al luogo di culto, sono state sufficienti le prime note per farlo scappare dalle braccia della madre per andare a unirsi agli altri musicisti.
A detta di molti è stato quello l’imprinting di Presley con la musica. Da quel momento in avanti è stata una continua ascesa. Cori, piccole esibizioni in famiglia, primi passi da ballerino e, soprattutto, la presa di coscienza di voler cavalcare il sogno del rock n’roll attraversando sonorità blues, gospel e country.
La fusione di questi generi ha determinato l'”Elvis sound“. Aveva 10 anni quando partecipò a un concorso per giovanissimi autori. Arrivò quinto grazie alla sua versione county di “Old Sheep“. L’anno successivo ricevette in dono la sua prima chitarra.
Ma tutto questo avrebbe rischiato di svanire in concomitanza della chiamata alle armi. Era il dicembre del 1957 e si trovava sul set del film “La via del male” quando fu raggiunto dalla telefonata che lo invitava a presentarsi per adempiere al servizio di leva.
Elvis non si tirò indietro ma chiese e ottenne di essere temporaneamente dispensato. Il tempo di finire di girare la pellicola. L’arruolamento slittò dunque al marzo del 1958. Si unì al distaccamento di Fort Chaffee, nell’Arkansas, assegnato alla scuola per “addestramento carristi” – terza divisione corazzata – con il seguente numero di matricola: 53310761. Un numero, un culto.
L’interesse mediatico attorno alla sua figura e al suo arruolamento furono leggendarie. Tutt’oggi non c’è nessun paragone capace di stare in piedi. L’avvento del King nell’esercito dell zio Sam fu episodio epocale per stampa, media e società.
Intervistato sul suo stato d’animo, rispose: “Se sembro nervoso… è perché lo sono! E’ una grande esperienza. L’ esercito può fare di me ciò che vuole. Milioni di altri ragazzi sono stati chiamati, e io non voglio essere diverso dagli altri“. Un entusiasmo che però durerà poco. Al suo ritorno negli Stati Uniti era fortemente cambiato.
La sua musica ne risentì, spostandosi verso terreni più melodici e adatti a un pubblico non solo di teenager ma anche più adulto.
Dopo pochi mesi fu inviato a Brema, in Germania. Era il 1 ottobre del 1958. Vi rimase fino al 5 marzo 1960 . Come carrista si unì ai commilitoni di stanza a Friedberg, assegnato alla Ray Barracks, zona presidiata dai tempi della fine della Seconda Guerra Mondiale. Pare che rifiutò ogni singola forma di privilegio dettata dal suo essere una star.
Si adattò allo stile di vita dell’esercito e, così facendo, guadagno il rispetto dei colleghi. I tedeschi iniziano chiamarlo “Rock n’Roll Matador“, alcuni in senso dispregiativo, altri presi dall’entusiasmo di averlo lì, nella loro città. Immaginate voi di avere Elvis Presley sotto casa: la leggenda, il Re, il rivoluzionario, il divo, la star. Chiamatelo come volete, la vostra euforia non avrebbe limiti.
Ma, per quanto il tentativo di essere trattato come gli altri compagni di battaglione fu nobile, all’atto pratico non fu rispettato in via tassativa. Chiese – e ottenne – di portare con sé parte della propria famiglia, oltre che alcuni amici. Con questi visse prima all’Hilberts Parkhotel e poi all’Hotel Grunewald prima di trasferirsi in una bellissima villa a Bad Nauheim, in Goethestrasse 14 dove soggiornò per tutta la durata della sua permanenza in Germania.
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Durante quel periodo in Europa non andò tutto per il verso giusto, però. Il decesso della madre lo mise a dura prova, da un punto di vista emotivo. Fu proprio in quei mesi che iniziò ad assumere la benzedrina, farmaco “stimolante” da cui non si staccò mai più. Diventò, quindi, una concreta forma di dipendenza.
Con il tempo, e con il ritorno in patria, arrivò ad ammetterlo, mostrandosi fragile e al tempo stesso determinato circa uno stile di vita che non avrebbe più abbandonato.
Di tale dipendenza incolpò – con un pò troppa facilità – la noia accumulata sotto le armi. Affermò che fu proprio questa a stimolarne la creatività. Non solo artistica ma anche sportiva. Si avvicinò al karate, che divenne una sua grande passione. Tra i dispiaceri prodotti dalla carriera militare ha sempre messo davanti quello di non essere riuscito a incontrare Brigitte Bardot.
Si congedò dalla Germania con i gradi di sergente. Una delle frase più simboliche legate alla sua figura e alla sua militanza sotto le armi fu pronunciata da John Lennon: “Elvis non è morto oggi — quel tragico 16 agosto 1977 — morì il giorno in cui iniziò il servizio militare“.
Circa un paio di anni fa, a Friedberg, cittadina dove, come detto, prestò il servizio militare, ha ricevuto un omaggio del tutto particolare: un semaforo, nei pressi della piazza intitolata al “Re del rock“. Al posto del classico omino presente in tutti i semafori del mondo c’è la sagoma di Elvis nella sua classica posa a gambe divaricate e bacino inarcato.
Un ricordo impossibile da affievolire.
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