“Doctor Doctor” è l’inno di cui abbiamo disperatamente bisogno
Non ci siamo, ma vorremmo esserci. Stanchi e provati da una giornata d’interminabile attesa, sotto il cocente sole estivo dopo aver tracannato una birra dopo l’altra in compagnia degli amici di sempre, fidati compagni di concerti, e di persone conosciute sul posto, capaci di entrare di diritto nella combriccola del momento dove età, esperienze personali e provenienze geografiche e sociali si annullano. Dove, in fin dei conti, ciò che conta è solamente il perché si è presenti lì, quel giorno, in quel preciso istante.
Non ci siamo, ma vorremmo esserci. Lì, in quell’arena, schiacciati gli uni contro gli altri, sudati, appiccicosi, sporchi. Eccitati, adrenalinici, pronti a lasciarci alle spalle i problemi del momento, le turbe della nostra vita, le preoccupazioni del domani e le ansie del presente. T-shirt e pantaloncini. Un cappello, tutt’al più, o il giubbino di jeans smanicato e con le toppe delle nostre band preferite. Indomabile icona di stile capace di sopravvivere a tempo e mode.
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Non ci siamo, ma vorremmo esserci. A vedere il sole tramontare lentamente, che si lascia alle spalle scie rossastre prima di spalancare le porte alle notte, frizzante e carica di passione da scatenare all’unisono come non ci fosse un domani, sperando che una leggera brezza possa rinfrescarci e ripagarci dell’attesa passata sotto il caldo asfissiante. Si parla, si dialoga, si ricordano concerti ed episodi che hanno segnato un amore lungo una vita. Si elevano cori, si getta acqua sulla testa della gente. Si fa casino. Perché si. Ci si intrattiene, ma è tutta una messa in scena per ingannare il tempo prima di vedere Loro fare l’ingresso sul palcoscenico.
Loro, sì,a gli Iron Maiden. Dopo la playlist diffusa dagli altoparlanti finalmente arriva quell’inno, quel brano che riecheggia nell’aria e che separa la realtà dal sogno. Quell’attimo dalla durata di poco più di quattro minuti in cui tutto si ferma e le vibrazioni del cuore e dell’anima sono il perfetto antipasto per un’imminente esplosione di gioia. Pura, sincera, incontenibile. Sono sufficienti le prime note di “Doctor Doctor“, celebre brano degli Ufo che i Maiden utilizzano per aprire i loro concerti, a farci entrare in un universo parallelo. Si accendo le luci sul palco. Manca sempre meno, l’ingresso della band è imminente.
Non ci siamo, ma vorremmo esserci. A provare quella botta di vita chiamata concerto. Il primo coro segue l’iniziale arpeggio di chitarra, il primo urlo all’unisono è con l’ingresso della batteria all’interno del brano e il grande boato, quello che dà il via a tutto e che sancisce l’inizio del countdown prima dell’inizio dello show, arriva quando parte la prima strofa. “Doctor, doctor, please, Oh, the mess I’m in, Doctor, doctor, please, Oh, the mess I’m in“.
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Brividi, emozioni, pelle d’oca. Tutto si annulla, tutto viene messo da parte. Che il mondo vada al diavolo. Sudore, stanchezza, fatica, centinaia di chilometri macinati da ogni angolo d’Italia e d’Europa per vedere sua maestà Steve Harris, l’Air Red Siren Bruce Dickinson, Dave Murray, Adrian Smith, Janick Gears e Nicko McBrain. Tutto viene ampiamente ripagato. Ma quali musicisti, quei sei sono eroi, sono i nostri eroi.
Gli occhi delle migliaia di presenti trasudano commozione. Ma come potrebbe essere altrimenti? Come si fa a restare inermi o semplicemente attendisti quando sai che da lì a pochi minuti assisterai all’ennesimo, incredibile, concerto della Vergine di Ferro. E’ lì, a portato di mano. Mancano tre minuti e il pubblico canta, fischia, impreca. Mancano due minuti, le urla si elevano, il coro “Maiden Maiden” ormai sovrasta tutto. Tremano le gambe, sale l’eccitazione. Manca un minuto, il grido “Up The Irons” non lascia scampo. Ci siamo, le casse diffondono l’ultima strofa di “Doctor Doctor”, il pubblico avanza e si accalca sotto al palco.
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Mancano pochi secondi, si spengono le casse, si spengono le luci, sale il boato della folla in fibrillazione e “Churcill’s Speech” dà il via al concerto.
Non ci siamo, ma vorremmo esserci. Ci manca dannatamente provare quel brivido lungo la schiena, quello strattonare l’amico incredulo al nostro fianco, quell’urlare al cielo la nostra passione e la nostra voglia di vivere. Ci manca terribilmente ascoltare quella “Doctor Doctor”, ultimo baluardo prima di due ore memorabili.
E’ stata un’estate italiana senza concerti degli Iron Maiden e tutti ci siamo sentiti più orfani, più soli, più privi di una parte essenziale della nostra esistenza. L’uscita di Senjutsu (qui la nostra recensione) ha ampliato questo divario tra realtà e fantasia, impedendoci di godere appieno del principale aspetto promozionale del disco: il tour. Dopo una vita passata a programmare le vacanze in base al calendario concertistico da seguire, siamo stati condannati a mesi di vuoto assoluto. I quali, probabilmente, si protrarranno almeno fino all’estate 2022 quando, si spera (ma ormai non facciamo più programmi) qualcosa potrebbe finalmente cambiare.
Il nuovo singolo, The Writing On The Wall, ci aveva illusi, proiettati nella dimensione a noi più congeniale, quella relativa all’attesa che separa l’uscita discografica dall’acquisto del biglietto per il concerto che s’intende vedere. Ma è stata un’attesa vana. Nessun tour tricolore, nessun ticket, nessun concerto. Nel Bel Paese non abbiamo potuto godere della possibilità di ascoltare i nuovi brani dal vivo, come siamo stati abituati da sempre e come sempre vorremmo che accadesse.
I Maiden hanno sfornato un disco che, ci perdonerete l’entusiasmo, è strepitoso. Come tale, meritava di essere celebrato dal vivo rinnovando, di tappa in tappa, quel legame laico tra band e pubblico. Niente festival, niente arene stracolme di appassionati, niente concerti da migliaia e migliaia di persone. Niente nuove conoscenze. Niente maglie celebrative del tour da acquistare. Nulla. E’ tutto così vuoto, brutto, insensato. Recupereremo l’anno prossimo (forse) ma, nel mentre, come si resiste senza quel countdown chiamato “Doctor Doctor”?