Disse il corvo: “Mai più”. L’oscurità creativa del genio di Poe
Siamo ormai lontani almeno un centinaio di milioni di anni dal XIX secolo di Edgar Allan Poe. Stiamo vivendo l’epoca del pro(re)gresso scientifico, la nuova dogmatica religione a cui ci si affida ciecamente per non pensare o riflettere più. Quella più intransigente, che non ammette errori o revisioni di sorta. Quella che ha tolto le libertà fondamentali dell’individuo, barattandole con un illusorio, fasullo senso di protezione.
Che ha deciso e stabilito che siamo tutti uguali, ma alcuni sono più “uguali” degli altri. Ma non è così. E lo stiamo imparando. Che ci piaccia o meno, la natura è aristocratica, gerarchica, e assegna ruoli. C’è chi contribuisce di più, chi di meno alla causa umana. Solo che oggi non esiste più nessuna causa per cui lottare, e i ruoli di conseguenza sono invertiti. Chi dunque avrebbe tanto da dare al vero progresso, di cui nessuna crisi di governo potrà mai spogliare, e cioè quello interiore, è tagliato fuori e lasciato a morire al freddo e al gelo. Succede questo quando il materialismo scientifico diventa il braccio armato o la puttana lussuriosa del Dio denaro. E noi lo abbiamo anche permesso. E ora ce lo teniamo.
L’800 dal punto di vista del progresso umano/interiore è stato come mettere il turbo ad una nuova creazione, togliendo di mezzo le macerie delle illusioni razionalistiche lasciate in eredità da quei poveri ingenui degli illuministi del secolo precedente, ricostruendo così su un terreno più fertile. Un’epoca che ha visto nascere alcune tra le più grandi menti di sempre in ogni branca dell’arte, e non è un caso dunque se fu proprio agli inizi di questo secolo, il 19 gennaio del 1809, che nacque il genio tormentato e sconfinato di Edgar Allan Poe.
Il pericolo di essere manchevoli quando si parla di simili uomini fuori dal comune come Poe è sempre in agguato, ma ci proveremo lo stesso.
C’è una locuzione latina che scava nel profondo, e che riassume la vita di Poe: “Natura abhorret a vacuo“. Tradotto: la natura odia il vuoto. Tutti abbiamo dei vuoti nelle nostre vite, che i nostri istinti naturali ci portano a tentare goffamente di riempire con qualsiasi cosa: dal lavoro al sesso, dall’alcol di pessima qualità al crearci una famiglia disfunzionale, mentre qualcosa dal profondo ci suggerisce che è una battaglia persa in partenza. Ma noi mettiamo a tacere quella voce con altro alcol, altro lavoro, altro sesso.
Alcuni invece sono un’eccezione alla regola: non nascono con dei miserabili buchi; nascono con delle vere e proprie voragini insanabili nell’anima. E la vita di Poe è stata tutta un susseguirsi di disgrazie dovute al maldestro tentativo di colmarle in qualche modo, partorendo però dal caos della sua esistenza opere letterarie di inestimabile valore. Basti dire che senza di Edgar Allan Poe non esisterebbe il genere poliziesco e non avremmo la letteratura dell’orrore, di cui è stato di entrambi pioniere. Inoltre, per reazione a catena, probabilmente non avremmo nulla di tutto ciò che abbia a che fare con i misteri imperscrutabili della mente in ogni campo dell’arte, dal cinema alla musica.
Nato a Boston come Edgar Poe da David Poe ed Elizabeth Arnold (una coppia di attori girovaghi) fu abbandonato dal padre alcolizzato a soli 2 anni, mentre sua madre morì qualche mese dopo di tubercolosi in un albergo di Richmond. Nessuno per due giorni si accorse dei pianti disperati del piccolo Edgar chiuso in quella stanza, con il cadavere di sua madre che iniziava a decomporsi.
A seguito di questa orribile esperienza, il tema della morte di una donna amata lo tormenterà per tutta la vita, e ricomparirà in moltissimi suoi scritti come Berenice o Ligeia, e non lo lascerà mai andare nemmeno nella realtà la maledizione della perdita delle sue amate. Come del resto scrisse lui stesso: “Dunque la morte di una bella donna è, fuor di discussione, il più poetico tema in tutto il mondo“. Dopotutto, non siamo quasi mai il risultato dei nostri brevi momenti felici. Siamo spesso il risultato dei nostri drammi e dolori.
Venne dunque adottato da un’amica di sua madre, Frances K. Valentine, che si prese cura di Edgar insieme al marito John Allan (da cui prese l’altro suo cognome), ricco mercante di tabacco e di schiavi di Richmond. Nonostante l’alto tenore di vita che gli permisero di condurre, la tristezza non lo abbandonò mai. E come avrebbe potuto in fondo. Senza un padre a dargli coraggio e con una imago materna malata, logora, morente. Come tutte le donne della sua vita, non a caso.
Dopo aver trascorso pochi anni in Inghilterra, studiando e ricevendo un’educazione prettamente inglese, tornò in America con la sua famiglia adottiva e nel 1825 si iscrisse all’accademia di Richmond, ma fu espulso in breve tempo per i suoi comportamenti dissoluti e grossi debiti di gioco. Fu qui che si innamorò per la prima volta di una donna, Jane Stith Stanard, ma la perse in breve tempo a causa della di lei morte. Inconsolabile, si recava di notte e sotto la pioggia, vento e neve sulla sua tomba a piangerla. Fu la prima donna che riaprì in lui la sua antica, originaria ferita dell’abbandono.
Provando a reagire al dolore, si iscrisse successivamente all’università della Virginia per studiare lingue antiche e moderne, ma anche qui non ebbe fortuna. Invaghitosi di un’altra donna, Sarah Elmira Royster, gli fu impedito di continuare a vederla dal padre di lei per vecchi rancori col suo padre adottivo John Allan. Quest’ultimo inoltre si rifiutò di pagare i debiti di gioco che Edgar aveva contratto all’università, e fu costretto dunque ad abbandonarla.
Per sublimare il dolore dell’ennesima perdita, si arruolò nell’esercito americano e scrisse Tamerlano e altri poemi, una raccolta di poesie che ebbe però scarso successo. Lasciò l’esercito e si iscrisse all’accademia militare di West Point, dove passava le giornate a leggere e a disobbedire agli ordini (come ogni genio che si rispetti), ottenendo di conseguenza, solo otto mesi dopo, l’espulsione per insubordinazione. A causa di ciò, e per continui altri contrasti, fu in seguito anche diseredato dal signor Allan Sr. dal suo testamento.
Iniziò così ad impegnarsi seriamente nel vivere di sola scrittura, ma si scontrò ben presto con un periodo nero per l’editoria che difettava perfino di una legge sul diritto d’autore, e dovette spesso ricorrere ad altri saltuari impieghi per sopravvivere. Incoraggiato da alcuni editori, che videro nelle sue manie e nelle sue stranezze di pensiero e comportamento un punto di forza, iniziò quindi a scrivere i primi racconti horror e giallo psicologico per diversi giornali di Richmond, Baltimora e New York. Pubblicò così nel 1838 (senza successo) il suo unico romanzo Storia di Arthur Gordon Pym.
Si guadagnò subito invece una discreta fama di spietato, tagliente critico e furioso polemista, specialmente di testi popolari del suo tempo. Era infatti una persona dal temperamento molto nervoso e dal senso dell’umorismo satirico e pungente, in controtendenza con quasi tutto ciò che riguardava la sua epoca, ma era anche estremamente intelligente.
Di fatti, ad ogni giornale a cui approdava come redattore, ne moltiplicava immediatamente le vendite, e fu sotto il Burton’s Gentleman Magazine di Filadelfia che pubblicò il suo primo vero successo La caduta della casa degli Usher, insieme ad altri racconti. Fu però solo negli anni ’40 che iniziò a farsi un nome con scritti come Lo scarabeo d’oro, Il gatto nero, Il cuore rivelatore, La maschera della morte rossa, Il pozzo e il pendolo (solo per citarne alcuni tra i più conosciuti) e la sua poesia più gotica e famosa di sempre: Il corvo. Una poesia a dir poco meravigliosa, commovente, che ha aperto la strada a tutta una serie di subculture sotterranee che non hanno mai cessato di esistere, e sono tuttora sempre in fermento.
Nel 1841 scrive per il Graham’s Magazine, con il quale pubblicò I delitti della Rue Morge, considerato da molti critici il primo vero racconto di genere poliziesco della storia, in cui compare la figura di Auguste Dupin (criminologo), padre simbolico del più conosciuto investigatore logico-deduttivo Sherlock Holmes.
Nel frattempo, le nubi cariche delle sue ossessioni si fanno sempre più dense e oscure sulla sua vita, e il suo carattere irrequieto, emotivamente instabile, lo induce a consumare sempre più alcol per resistere ai demoni che lo tormentano dalla nascita, che lo chiamano a gran voce dalle ferite profondissime nella sua anima. Si dice che spesso finiva a bere fino a mattino nei pub, dove parlava con le persone comuni dei suoi racconti, ma questo non faceva altro che provocargli ulteriore frustrazione, in quanto non veniva ovviamente capito e spesso anche deriso dai suoi (dis)simili.
La situazione emotiva per lui si aggravò ulteriormente quando sua moglie Virginia, una cugina di secondo grado che aveva sposato qualche anno prima e di cui era perdutamente innamorato, si ammalò anche lei come sua madre di tubercolosi. Si rivolse quindi con ancor più feroce disperazione all’unica che lo capiva veramente, capace di lenire le sue sofferenze: la bottiglia.
Nel 1844 si trasferì a New York, e divenne proprietario del Broadway journal, col quale si fece conoscere grazie anche al suo Il corvo. Ciononostante, il giornale fallì pochi mesi dopo per motivi finanziari, ed ebbe il suo vero tracollo di depressione nervosa nel 1846 quando, trasferitosi in un cottage a Fordham in condizioni di estrema povertà, sua moglie morì ventiquattrenne. Di nuovo, esattamente come sua madre. L’alcol non bastava più, e si diede al laudano, peggiorando le sue condizioni di salute psicofisica. Diversamente dagli altri poeti maledetti, iniziò col laudano in tarda età solo per placare la sua profonda malinconia, e non per cercare ispirazione.
Per qualche anno tentò di sopravvivere tenendo conferenze, ma alla fine la sua solitudine esistenziale ebbe la meglio sul suo spirito già duramente provato dalla sorte: morì il 7 Ottobre del 1849, a soli quarant’anni. Le circostanze della sua morte non furono mai del tutto chiarite. Le fonti dicono che fu trovato delirante lungo le strade di Baltimora, con addosso vestiti non suoi e, portato in ospedale da un passante, non riuscì mai a riacquisire la lucidità necessaria per spiegare cosa gli fosse successo. Ci sono varie teorie sulla causa della sua morte, ma non entreremo nel merito. A volte è più importante come si vive che come si muore. Le sue ultime parole furono: “Signore, aiuta la mia povera anima“. Dopodiché si adagiò sul letto, chiuse gli occhi… e non li riaprì mai più.
Poe, come tutte le persone dotate di una grande intelligenza, di un viscerale intuito per i segreti insondabili della psiche umana e di un delicato senso artistico, non fu capito dai suoi contemporanei. È probabilmente il destino che gli dèi assegnano a persone di tale sensibilità, quello di essere postumi mentre sono ancora in vita. Di essere capiti molto tempo dopo. Di essere terribilmente, tristemente, disperatamente soli.
Fu solo grazie alle traduzioni dei suoi testi fatte dal suo collega europeo Charles Baudelaire che ebbe, dopo la sua morte, finalmente la visibilità che meritava. Baudelaire provava infatti per Poe una sincera ammirazione e un tenero affetto, tali da condurlo non solo a tradurre le sue opere, ma anche a scrivere dei saggi sulla sua vita. È bello essere riconosciuti ed amati da chi è in grado di capirti.
Concludiamo con alcune parole proprio di Charles Baudelaire, che fanno al caso nostro: “Nei disordini di momenti come questi alcuni uomini socialmente, politicamente e finanziariamente a disagio, ma assolutamente ricchi di un’energia innata, possono concepire l’idea di stabilire un nuovo tipo di aristocrazia, ancora più difficile da abbattere perché basata sulle più preziose e durevoli facoltà e su doni divini che il lavoro e il denaro sono incapaci di donare.”
Amate l’arte, e non morirete mai di realtà.
Disse il corvo: «Mai più».