Dio ci salvi dal cinema sotto le stelle, o almeno ci dia una spiegazione
Sbagliavano quelli che prevedevano, per la fine della quarantena, un aumento di bontà contagiosa da parte degli Italiani colpiti dalla pandemia. Per fortuna, le cose sono andate diversamente: non abbiamo imparato nulla e da un punto di vista prettamente etico questo ci ha impedito di scivolare nella locura delle musichette e degli abbracci tra dirimpettai.
In compenso, gli Italiani hanno scoperto con ingenuo ritardo lo smartworking e l’istruzione digitalizzata, certi insegnanti hanno familiarizzato con le videochat e una fetta del pubblico cinematografico ha iniziato a vedere con meno sospetto i servizi streaming. Sorvoleremo sui primi tre punti per arrivare al cuore della questione. Anche sul cinema ci siamo riscoperti inguaribili romantici: una città già di per sé nota per le iniziative culturali deplorevoli come Bologna ha rilanciato il cinema sotto le stelle, e seguono a ruota molte città italiane, soprattutto costiere.
Un Paese che per tre mesi ha voluto venderci la digitalizzazione delle arti e dei mestieri come l’avanguardia del secolo non ha perso occasione per tornare al suo sport preferito: sciorinare la sensibilità dell’anima. Il problema non è il cinema all’aperto, che è comunque un disturbo per la collettività – per collettività non si intende la parte buona del paese, ma i fortunati che risiedono a ridosso di questi cinema aperti e non ne sono interessati –, soprattutto se la selezione, come si è visto, è un condensato di tutto l’insostenibile che il cinema dalla schiena dritta ha tirato fuori in Italia e all’estero: c’è Palombella Rossa di Moretti, come nel più classico dei cineforum adolescenziali, e qualcosa di Glazer per riflettere sulla trasmigrazione dello spirito.
Le commedie, quelle vedetevele a casa vostra. Il problema è che questa manifestazione non va in nessuna direzione: si propone come balsamo per il senso comune – che non esiste – della visione, per il piacere del grande schermo, per una ritualità che, come avevamo già osservato altre volte, ha qualcosa di teologico forse, ma si muove su un terreno al di fuori dal giro di riflessioni rivelatrici sulla diatriba sala-streaming.
Questo ci permette di pensare, a ragione probabilmente, che l’alfabetizzazione tecnologica in Italia debba per forza fare i conti con quelle esecrazioni di bontà esibita che colmano i vuoti di certi disegni politici e che appartengono, per riflesso, ai giovani che quei disegni pallidi e reazionari li sventolano come una panacea contro i mali del mondo moderno. Sempre a ragione possiamo constatare la piega che questa filosofia ha preso in direzioni diverse. Poche settimane fa, nel carcere di Secondigliano, ad alcuni detenuti è stato chiesto di leggere e analizzare “Il visconte dimezzato” di Calvino. Non solo leggere, ma analizzare.
Una prova punitiva, penserete voi. Ma come rifletteva Gurrado sul Foglio, in Italia la cultura ha sempre un sottotesto punitivo, e da parte di chi organizza queste punizioni, un valore salvifico. Insomma, leggere non basta, ci vuole uno slancio sacrifico. È bastato invece l’arrivo del kindle sul mercato per far tacere le secolari lotte contro la produzione della carta e far tornare i professori liceali e gli studenti più fragili di cuore a campeggiare al fianco dei libri cartacei, insostituibili per odore e tatto. Nostalgia anche per la stagione teatrale: qui a Pescara, dove i teatri si riempiono solo con rumoristi e pernacchioni dialettali, la platea chiede spazientita di riavviare la macchina dello spettacolo. Alla stessa maniera, con la fine della quarantena, il cinema torna ad essere un’arte dal valore comunitario e pedagogico. Impensabile, quindi, lasciare che lo streaming divori tutto. Ma la sala del cinema non basta: ce ne vuole una sotto le stelle. Astenersi perditempo però: se siete tra quelli che pensano che il cinema sia fatto per godersi un film e basta, fuori dai piedi.