Parole & Suoni, De André incontra Lee Masters a Spoon River
L’arte è sempre fonte di ispirazione per altra arte. D’altronde una ciliegia tira l’altra. Come nel caso della letteratura che in continuazione è divenuta spunto per musicisti e cantanti. A volte più esplicitamente, a volte meno.
Coleridge, ad esempio, fu messo in musica dagli Iron Maiden. Lorca e il flamenco e il jazz. Guccini con Cyrano, Don Chisciotte.
De André invece decise di lasciarsi ispirare da uno dei padri della letteratura americana. Quel Edgar Lee Masters autore di “Antologia di Spoon River”. I versi liberi di quest’ultimo si trasformarono negli anni ’70 in strofe ritmate del cantante genovese.
Faber colse in pieno l’anima dell’opera mastersiana. L’idea dell’uomo del boom economico italiano degli anni ’70 rispecchia i temi del poeta americano. Quegli uomini che a inizio ‘900 andavano allontanandosi dalla comunità, sempre più incentrati su se stessi. L’individualismo come motore per la ricerca della propria ricchezza. Il tutto come fonte di invidia.
I personaggi narrati da Masters, prima a puntate su giornali locali e poi come parte di un’opera organica, erano defunti che parlavano in prima persona e scevri da implicazioni che avevano in vita. Erano appartenenti alle più disparate classi sociali.
Leggi anche “Ventidue anni senza Fabrizio De André: le nostre 10 canzoni preferite”
Fu proprio questo a colpire De André, che così sviluppò la sua voglia di cantare “gli altri”. I cosiddetti “diversi”. Faber vide in quei personaggi, come lui stesso ammise, qualcosa di sé.
Questo suo riconoscersi nelle poesie del poeta americano diede vita all’album “Non al denaro, non all’amore né al cielo“. Pubblicato nel 1971, il disco contiene 9 tracce tutte ispirate da “Antologia di Spoon River”.
I brani furono degli adattamenti degli epitaffi di Masters alla realtà italiana. “La collina”, ad esempio, è l’apertura sia dell’opera del poeta statunitense che dell’album del cantautore italiano. “The Hill” è appunto dove riposano i morti di Spoon River e dalle tombe dei quali lo scrittore prese spunto. Nel brano di Faber, come nell’Antologia, è ridondante il chiedersi dove siano finiti questi uomini e donne, che in vita furono chi chiassoso, chi superbo, chi un ubriacone. Tra questi c’è un omaggio anche al musicante Jones, a cui sarà dedicata la canzone che chiude l’album. Al suonatore è dedicato anche il verso che fornisce il titolo del disco: “Lui che offrì la faccia al vento, la gola al vino e mai un pensiero non al denaro, non all’amore né al cielo“.
Con questo lavoro Fabrizio De André volle dare voce agli emarginati, coloro che dormivano in eterno su quella collina, vinti dal destino. Quei personaggi che danno il nome, per le loro caratteristiche, alle 9 canzoni (tranne ovviamente “La collina”). Un matto, un giudice, un blasfemo, un malato di cuore, un medico, un chimico, un ottico e il suonatore Jones.
Le storie di costoro, di cui Masters si fece primo portavoce, diventano un messaggio. Divise per tema, la scienza e l’invidia, parlano della vita che acquista senso solo se vissuta alla ricerca della libertà. Quella libertà sempre centrale nella vita del cantante genovese. E proprio il brano che chiude l’album sembra assumere una nota autobiografica. Che preferì morire in povertà anziché farsi sopraffarre dalle ambizioni che avrebbero messo in secondo piano, appunto, la libertà.
“Libertà l’ho vista svegliarsi ogni volta che ho suonato per un fruscio di ragazze a un ballo per un compagno ubriaco”.