“Darkling”: arriva al cinema il thriller psicologico di Milic che racconta il postguerra in Kosovo
A Roma è stato presentato in anteprima stampa il film “Darkling”, il thriller psicologico di Dusan Milic, visibile al cinema a partire dal 21 aprile. Nell’entroterra montuoso del Kosovo, in una fattoria circondata da una fitta foresta, vive l’undicenne Milica con la madre Vukica (Danica Curcic) e il nonno Milutin (Slavko Stimac). Subito dopo la fine della guerra, la maggior parte delle famiglie di entrambe le nazionalità, serbe e albanesi, sono state sfollate. Molte di loro sono state completamente distrutte, devastate fisicamente e psicologicamente. Quando cala la notte, i tre protagonisti si barricano in casa terrorizzati da ciò che si cela nel bosco. Quella che un tempo era fonte di abbondanza e approvvigionamento ora è causa di paura e luogo ideale di copertura per il nemico.
La paura che la loro casa sia sotto assedio è un’eco della recente guerra, o è solo la loro immaginazione come i funzionari della KFOR vogliono fargli credere? La Kosovo Force (KFOR) è la forza militare internazionale guidata dalla NATO responsabile del mantenimento della pace in Kosovo. Ogni mattina due soldati italiani, Luca e Maurizio (Flavio Parenti) accompagnano a scuola con un veicolo blindato i bambini dei villaggi della zona. Lì, un sacerdote ortodosso li incoraggia a non abbandonare il loro Paese, ma ogni notte che passa il terrore si intensifica.
Quando gli italiani decidono di avviare un’indagine ufficiale per il ritrovamento di serbi scomparsi (tra cui il figlio e il genere di Milutin) vengono trasferiti, spingendo i pochi abitanti rimasti a lasciare le proprie case. Ma nonostante questo Milutin vuole restare per aspettare che il figlio scomparso faccia ritorno. Deciso a combattere un nemico invisibile mette così a repentaglio la vita della figlia e della nipotina.
Per dar voce ad una grave problematica spesso insabbiata per farla finire nel dimenticatoio, Dusan Milic ha scelto il thriller psicologico “per coinvolgere meglio il pubblico e soprattutto in numero maggiore rispetto quello che avrebbe potuto fare un dramma storico-sociale”. Perché il principale obiettivo era raccontare la storia del Kossovo nel 2004. E Milic ci riesce con un film duro e crudele, ma vero ed onesto: un pugno che arriva dritto allo stomaco.
“Nella mia storia” dichiara il regista “il nemico non è mai visibile, anzi è come se non esistesse. La mia intenzione era quella di creare qualcosa di più di una metafora e di uno stile da film d’autore. La cosa più spaventosa è la paura che attanaglia la mente dei protagonisti: è giustificata o è solo immaginazione? Questa storia parla dei mali che non possono essere scissi dal nostro essere; la paura primordiale dell’oscurità e di ciò che in essa si nasconde. Cosa c’è da aspettarsi quando cala la notte e andiamo a dormire? Quello che vediamo forse non è la realtà.”
Per supportare questo punto di vista, Milic ha cercato di creare uno stile visivo inquietante: ombre profonde e oscurità impenetrabile, tutti i suoni che diventano qualcos’altro. I fischi del vento diventano un segnale di pericolo, non un evento naturale; gli scricchiolii del pavimento di legno suggeriscono la presenza di un intruso che vuole irrompere… perché nell’oscurità si perde il senso della vista facendo acutizzare tutti gli altri. E “ogni piccolo suono potrebbe sembrare il rumore di un elefante che corre contro di noi”.
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Un film di un estremo realismo a partire dalla casa in cui vivono i protagonisti costruita appositamente, al cd di Morandi cantato a squarciagola da dentro un carrarmato, ai discorsi principalmente in serbo, al rapporto tra i protagonisti (costruito dal regista attraverso una convivenza di 2 settimane sul set). Gli adulti ed i bambini appaiono affamati, magri, svuotati, sfiniti, in qualche modo assorbiti dall’oscurità in cui sono avvolti… Perché chi vive una guerra diventa l’incarnazione vivente degli umani alle soglie della morte, che fisicamente appaiono come non vivi, molto più vecchi di quanto non siano in realtà. Ed ecco infatti la scena della bambina che ad undici anni si stacca i capelli bianchi di fronte lo specchio.
“La cosa più interessante” rivela Flavio Parenti “è stato scoprire come i soldati italiani della NATO erano e tutt’ora sono visti come delle persone di cuore capaci di relazionarsi con gli altri. Trovo che questo sia un segno della nostra cultura: una cultura di vicinanza, della relazione tra esseri umani. Inoltre questo il punto di forza di questo film (che esce solo ora a causa della pandemia) è il suo essere metaforico, allegorico: parla della guerra con la G maiuscola e degli esseri umani all’interno di questa guerra. Una storia valida in Kossovo ma anche ahimé in Ucraina e ovunque. Ovunque, senza metterci una bandiera sotto. Per quanto poi parli di una storia vera, nasca dalla realtà, allo stesso tempo il film parla d’altro. Anzi ci parla d’altro: una battaglia interiore contro la paura, la lotta tra gli esseri umani.”
“Nel finale” rivela il regista “forse non si nota che la canzone in serbo in realtà è un padre nostro. E poi lo sguardo della bambina, quasi al centro della telecamera, non guarda propriamente il pubblico ma sembra cercare qualcosa tra il pubblico. Come per trasmettere un senso di speranza nello sguardo di una bambina che ha bisogno di speranza.”