Da “The Prudes” al film su papà Gigi, l’intervista a Carlotta Proietti
Carlotta Proietti e Gianluigi Fogacci sono Jessica e James Prudes, nello spettacolo “The Prudes”, scritto dal commediografo scozzese Anthony Neilson, esponente principale dell’ “In your face theatre”, il genere teatrale diffusosi, alla fine del secolo scorso, tra i drammaturghi britannici che condividevano la rappresentazione di temi anche inconsueti e per questo capaci di destabilizzare il pubblico.
“The Prudes”, in scena al Teatro Talia di Tagliacozzo sabato 26 febbraio (ore 21), porta alla ribalta il tema della sessualità nella coppia, inscenando una situazione di crisi dovuta alla perdita della passione, che Jessica vuole risolvere categoricamente nel corso dello spettacolo, di fronte ad un pubblico al quale entrambi i protagonisti affidano i lati nascosti della loro relazione.
Abbiamo parlato dello spettacolo, e non solo, con Carlotta Proietti.
Partendo dallo spettacolo “The Prudes”, con Gianluigi Fogacci che ne cura anche la regia, chi è Jessica? Che personaggio interpreta Carlotta Proietti in questo spettacolo?
Jessica è una persona, anzi, entrambi sono due persone abbastanza particolari, in quanto si presentano e accolgono il pubblico quando entra in sala, e già questa è una particolarità e genera da subito un imbarazzo reciproco che è molto divertente, sia da vedere sia da fare. Lei è in questa coppia da 9 anni e si capisce fin da subito che è molto affezionata al suo compagno e anche fiduciosa in questo rapporto. Ci sono, però, delle difficoltà enormi, ed è arrivata ad un punto della sua vita in cui decide di affrontarle. Evidentemente è al limite, dopo aver tentato di affrontare le problematiche di una coppia tipica, decidono insieme – anche se nella mia testa è più lei che ha spinto lui – a raccontare queste cose intime e delicate davanti ad un pubblico. È una donna, mi verrebbe da dire, disperata, arrivata al limite, ovviamente sempre nella leggerezza di una commedia..
Una donna che tenta di recuperare fino alla fine questo rapporto…
Sì, assolutamente, ed è una cosa alla quale io mi rispecchio abbastanza, sono il tipo di persona che prova fino alla fine, infatti lei ha messo una condizione, dicendo “o facciamo questa cosa e ci riusciamo stasera, altrimenti basta, non posso più andare oltre”. Mi sento piuttosto solidale, la capisco abbastanza anche perchè credo che nel rapporto uomo – donna ci sia un abbisso, siamo come cani e gatti, non c’entriamo nulla. Mi piace però, il modo in cui l’autore Neilson ha sviluppato il testo, che è nato in un modo particolare. Ha fatto improvvisare gli attori e ha scritto sulla base delle improvvisazioni, quindi il linguaggio e gli scambi sono molto naturali e spontanei, intervallati da piccoli monologhi privati, dei protagonisti, delle confessioni fatte al pubblico. È molto interessante come lavoro sia da vedere sia da fare. I protagonisti arrivano lì per dire “facciamo sesso” davanti al pubblico, che rappresenta l’estremizzazione di tutte le problematiche di relazione.
In che modo il pubblico viene coinvolto nello spettacolo “nella risoluzione” della crisi della coppia?
Coinvolgere il pubblico è un pò una provocazione, in quanto si parte dall’immagine di una coppia in imbarazzo per poi arrivare a parlare, a schiaffo, di molte cose intime e private. Questo fatto stesso di far entrare il pubblico nell’intimità è come se fosse uno scambio vorticoso e quasi pericoloso. Non si sa mai cosa può succedere quando si coinvolgono gli spettatori. Può capitare che il pubblico si scandalizzi, ma anche che si diverta, come spesso succede e si sviluppa quel meccanismo teatrale meraviglioso per cui anche davanti alla tragedia si ride e questa è una delle cose che mi piace molto del teatro inglese, poichè c’è un coraggio di andare fino in fondo..si tiene molte meno cose dentro, è più diretto. Il pubblico viene coinvolto, quindi, per percepire e scambiarsi degli stati d’animo, uno scambio di emozioni..
Nelle diverse repliche che avete fatto che reazioni avete avuto?
Devo dire che spesso il pubblico ha reagito sempre sopra le aspettative, proprio perchè lo humor inglese non è facile da digerire, a volte è un pò sottile e diverso. La cosa che mi dà più soddisfazione, e che capita spesso, è il fatto che si rida nei momenti giusti, ma c’è partecipazione anche nei momenti più tristi, c’è chi si è commosso, ad esempio. Il fatto che noi riusciamo – spero – a portarli su questo ondeggiare di stati d’animo è la più grande soddisfazione per questo spettacolo.
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Dal 3 all’9 marzo sarà nelle sale “Luigi Proietti detto Gigi”, il film di Edoardo Leo che racconta il personaggio di tuo papà, chi era per te Luigi Proietti?
Edoardo era partito dall’idea, ormai più di 3 anni fa, di fare un documentario sul fenomeno di mio padre, di come secondo lui sia riuscito a lasciare un segno e una trasformazione nel panorama teatrale italiano, con un genere che di fatto prima non esisteva, il “One man show”. Era interessante in quanto si interrogava su come fosse accaduto, il perchè, quale fosse il suo segreto. Quando poi mio papà è scomparso, ha deciso comunque di andare avanti, dopo essersi confrontato con noi. Ha, a mio avviso, molto abilmente, trasformato questo lavoro in una visione più ampia ma non ha voluto invadere troppo la sfera privata. Ci sono interviste mie, di mia zia, mia sorella e amici intimi, ma sempre sulla persona e sul modo in cui si approcciava al lavoro. Mio papà era proprio una sorta di tutt’uno con il suo lavoro e quello era il centro di tutto, era la sua linfa vitale, la sua passione, ma questo non vuol dire che trascurava la sua famiglia, tutt’altro. A casa mio padre era esattamente la stessa persona che si poteva incontrare a teatro o su un set. Se penso a mio padre, non esagero nel dire che quasi il 90% della sua immagine è attorno a quella che era la sua vita, cioè il lavoro. A casa si parlava sempre di lavoro, con goia e non pesantezza. Anzi, forse è stata una delle cose che ci ha uniti di più quando ho iniziato a fare questo mestiere. Ci si confrontava, era un vero e proprio artigiano..
Avendo come papà uno dei più grandi del teatro e del cinema italiano, è stato quasi inevitabile avvicinarsi al mondo della recitazione?
In realtà ho iniziato tardi con la recitazione, prima cantavo e basta. Mio padre in tempi non sospetti mi disse “secondo me puoi recitare”, ma non ha mai forzato la mano. Poi, certo, io sono cresciuta nei teatri ma un conto è avere familiarità con un posto e un altro è fare quel mestiere. Mi ci sono approcciata perchè da cantante poi ad un certo punto ho sentito il bisogno di avere delle nozioni tecniche e sono andata a studiare in un’accademia di teatro. Potrei dire quasi che è stato automatico, sì, ma ad un certo punto è stata necessaria anche la volontà di avvicinarsi a questo lavoro. Avere qualcuno così dentro casa non significa in automatico che apprenderai quelle nozioni, ma devi studiare, ci sono cose che devi imparare sulla tua pelle, con la tua gavetta e la tua generazione. Avevo bisogno di fare anche delle stupidaggini ed è giusto farle su di se, come fece lui.
Quale pensi possa essere stato uno degli insegnamenti più importanti che ti abbia lasciato tuo padre Gigi, soprattutto in ambito lavorativo?
Ne sono veramente tanti, ma se volessimo citarne uno su tutti, sicuramente direi il rispetto per il lavoro, anche se sembra abbastanza generico, ma li racchiude tutti. Chi ha un grande rispetto, e quindi un grande amore per il suo lavoro, non farebbe mai determinate cose. Mio padre è sempre stato iper corretto, sempre attento al primo attore come alla comparsa, ai tecnici come alla produzione. E’ sempre stato molto cauto nelle sue scelte, senza mai montarsi la testa. Questo, e molti altri, sono racchiusi sicuramente nel rispetto e nell’ amore per il proprio lavoro, che in fin dei conti è alla base di tutto.
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Da lavoratrice dello spettacolo, cosa pensi di quello che è accaduto ai teatri in questi due anni di pandemia?
Credo che il punto generale, al di là del momento specifico, è il fatto che fare teatro ormai è diventato un lusso e che, molto banalmente, ciò che si paga in tasse per un attore o produrre uno spettacolo sia impensabile. Penso che in questa direzione si dovrebbe lavorare, in quanto in conseguenza a ciò viene tutto il resto. Se io produttore non riesco a portare a casa una produzione senza finire in un bagno di sangue, è chiaro che o commetterò delle scorrettezze o mi fermo. Dire che il teatro andrebbe detassato è quasi utopia, ma il sogno della vita sarebbe quello, perchè si ricomincia a muovere bene una macchina, che, a prescindere dal Covid, non era messa bene. Eravamo messi male già molto prima. Andrebbe ripensato un pò tutto. Ci sono state difficoltà enormi per il Covid, ma non sarei mai voluta essere nei panni del Governo. Ristori ci sono stati, a chi più, a chi meno – e qui apriremmo un altro enorme discorso – però non credo che sia quello il centro dei problemi.