Con “I Diari della guerra”, Elena Arvigo torna a incantare sulla scena. L’intervista
Sul palco del Teatro Lo Spazio, una donna sola si muove tra i tanti, confusi oggetti della scenografia, reiterando gesti e abbandonandosi a continue fughe liriche fatte di parole appassionate, appassionanti, ma anche di pause o semplici sguardi. È Elena Arvigo, ed è una “macchina attoriale” piena di sentimento in grado di inchiodarti lì, sulla sedia, soggiogandoti completamente alla sua malia interpretativa.
“Diari della guerra” è un lungo monologo della durata di un’ora e mezzo circa che non ti lascia un attimo di respiro: una volta entrati in confidenza con la capacità evocativa dell’attrice genovese, ci si ritrova completamente proiettati in una Parigi di tanti anni fa. La Seconda Guerra Mondiale sta per finire, ma l’angoscia di chi non rivede i suoi cari da tanto tempo è ancora profonda, terribile.
E ci si commuove, non si riesce proprio a trattenere le lacrime quando si arriva alla climax dello spettacolo. E nel momento stesso in cui l’Arvigo esce di scena, non si può fare a meno di battere le mani e continuare a batterle per uno, due, cinque minuti, senza che i segmenti terminali degli arti in questione riescano più a fermarsi. Perché si è pienamente coscienti di aver assistito a una rappresentazione di un’umanità così franta ma, nello stesso tempo, così viva da non poterla più obliare dalla propria memoria di uomo o di donna.
Per alcuni fortunati, come il sottoscritto, quando le luci della ribalta sono spente c’è anche il privilegio di poter rivolgere qualche domanda a chi ha reso possibile tutto ciò e provare a capire come si mette su un capolavoro del genere. Questo è quello che mi ha detto e sono felice di poterlo condividere con chi avrà voglia di leggere.
I “Diari della guerra” fa parte di un più ampio progetto teatrale che, ad ora, contiene questo e altri cinque spettacoli. Ci spieghi come è nato e come e se si svilupperà in futuro?
È nato progressivamente, a partire da “Elena di Sparta”, con l’idea di fare uno studio sul mio nome, ma soprattutto su questo straordinario personaggio mitologico. Riflettiamoci un attimo: questa donna non si è mai mossa dalla sua città, non ha mai fatto niente, eppure è stata in grado di provocare quella che potremmo considerare la “guerra delle guerre”.
I motivi che hanno portato alle guerre, dalla notte dei tempi, non sono mai stati chiari, sono sempre stati basati su un inganno di comunicazione pernicioso e voluto e quella che ha portato alla guerra di Troia, in questo senso, può essere considerato l’“inganno degli inganni”. Ne consegue, osserverei, che il mito ha sempre molto da insegnare e la cosa mi ha affascinato.
Partendo da questa constatazione e prendendo in esame altre donne speciali, progressivamente è nata dentro di me l’idea di fare un discorso più ampio. La scelta delle varie protagoniste non è stata troppo meditata, a dir la verità, ma il discorso di fondo sì, e non so quando finirò di svilupparlo.
Per quanto riguarda la Duras, è sempre stato un mio grandissimo amore fin dai tempi della scuola, in particolare questo testo, che mi ha sempre provocato particolari emozioni già dopo la prima lettura.
Il fatto poi che io abbia avuto nella mia vita delle “tangenze” particolari con l’argomento trattato -mio nonno è stato prigioniero nei campi di concentramento-, mi ha spinto a volerlo sviscerare con sempre maggiore impegno, generando poi questo spettacolo, che è davvero faticosissimo e complesso da portare avanti. Però portarlo in scena, per me rappresenta una specie di sogno.
In questa pièce hai integrato due testi della Duras con “Specie umana” di Robert Antelme, suo marito e protagonista fantasma dello spettacolo. Perché, c’era qualcosa che aveva bisogno di essere integrato nel testo dell’autrice francese rispetto a quello che volevi dire?
In realtà in questa nuova versione di Antelme resistono solo alcune frasi che mi hanno particolarmente illuminato rispetto al discorso della guerra. Però si può dire che sia sostanzialmente tratto soltanto dai libri della scrittrice francese, tanto più che ho espunto alcune scene che rimandavano direttamente al testo del già citato Antelme.
Come si prepara una performance di questa intensità e che ha una durata piuttosto impegnativa?
Per portarlo in scena nelle condizioni migliori, mi devo sentire vuota. Devo, in qualche modo, non pensare pensandolo fino a quando non arriva il momento di calcare il palcoscenico. Si tratta di entrare in una sorta di “casa avvolta dalle fiamme” e ciò che serve per poterlo attraversare come si deve non è molto dissimile da quello che serve a quei performers che camminano sulle braci ardenti: una concentrazione rilassata e nello stesso tempo creativa.
Nel 2019 “Diari” aveva debuttato in forma di studio. In che modo è cambiato due anni dopo? Ci sono variazioni strutturali significative rispetto alla prima versione?
No, direi di no. Un po’ di normale taglia e cuci per provare a svilupparne al massimo il senso e il messaggio, ma la struttura è quella. Ci sono delle piccole, significative aggiunte che hanno un carattere dichiaratamente politico, come quando richiamo la dichiarazione di De Gaulle. O delle piccole sottrazioni come quelle già citate che richiamano il testo di Antelme.
Per quanto riguarda le prime, le ritengo funzionali rispetto a un qualcosa che mi preme assai mettere in evidenza, e cioè che molti governi, in qualsiasi epoca, si sono macchiati davvero di una condotta orribile. La Seconda Guerra Mondiale è stato un conflitto spaventoso, catastrofico, del quale non sempre si conoscono, purtroppo, tutti gli aspetti. In particolar modo certe “ragioni” politiche. E io, come essere umano prima ancora che come studiosa o come attrice, mi sono sempre interessata alla politica, ho sempre cercato di capire come funzionano certe cose.
Soprattutto quelle del passato, perché se non si capisce da dove si viene, da cosa si è stati storicamente determinati, poi si fa fatica a decodificare il presente e a capire che c’è una necessità pressoché assoluta di venir fuori da questa fase di “anestesia” sentimentale e ideale che stiamo vivendo. C’è bisogno di tornare a qualcosa di realmente vero, c’è bisogno di… sangue! E il teatro, in questo senso, può aiutare molto a cambiare lo status quo, secondo me. Il teatro unito allo studio di quel che effettivamente è stato.
A proposito di presente: questo tuo lavoro è un potente affresco sulla sofferenza e la forza femminili in tempo di guerra. Nella nuova messa in scena, ti hanno in qualche modo influenzato a livello emotivo certe realtà attuali come quella dell’Afghanistan? E, in senso più ampio, quanto influisce la porzione di storia che vivi in quello che poi porti sulla scena?
Sono sincera, di quello che sta succedendo da quelle parti, in Afghanistan intendo, ne so poco rispetto a quello che ci sarebbe da sapere per poterne essere influenzati. Inoltre, sono fatti troppo recenti per poter essere davvero introiettati nella loro vera portata e, dunque, rielaborati e in qualche modo narrati.
Sono invece scioccata dalla situazione politica che stiamo vivendo sia in Italia che nel resto del mondo, questo sì che mi colpisce! Vedo una tendenza a mettere in atto delle svolte autoritarie in ogni dove e so che proprio non mi piacciono. Come non mi piace la velocità con la quale si verificano certe cose, senza che le persone le abbiano veramente capite e metabolizzate. In questo senso, direi che “Diari” risente molto di quello che stiamo vivendo.
Io credo che oggi come oggi ci sia un grave problema da gestire dal punto di vista personale ed umano: riuscire a rimanere testimoni del proprio tempo senza essere necessariamente carnefici o vittime della situazione. Capire davvero cosa sta succedendo e, nello stesso tempo, saper carpire il vero segreto della lucidità critica, che per me risiede in massima parte nel non cadere in una certa retorica cronachistica come invece vedo spesso accadere.
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Hai curato ogni aspetto di questo spettacolo, dall’interpretazione alla regia, passando per la realizzazione dei costumi. Occuparsi di tutto è stata un’esigenza pratica o volevi avere il controllo di ogni singolo aspetto? Più in generale, qual è il tuo punto di vista sulla collaborazione tra varie maestranze quando c’è da mettere in piedi un allestimento?
Il punto di partenza che ho sempre avuto ben chiaro dentro di me è questo: i diversi ruoli comportano competenze differenti. Detto ciò, io sono un’attrice e il mio punto di vista è e rimane sempre quello di un’attrice. Ora, per quanto concerne il discorso della collaborazione, io penso che abbia senso soltanto nella misura in cui più persone siano fin da subito coinvolte nella realizzazione di un progetto.
Uno spettacolo, per me, è un qualche cosa che si rivela un giorno dopo l’altro, un elemento dopo l’altro. Affinché il risultato sia quello che si vuole ottenere, non ci devono essere disallineamenti temporali tra chi lavora insieme e si deve avere la consapevolezza che ogni singolo aspetto che si rivela funzionale, debba essere notato e sviluppato in sinergia.
È una questione di organicità che deve esserci ab origine, altrimenti non si entra nel mood giusto della creazione e si creano scollamenti. Lo so, non è facile, anche tenendo in considerazione fattori economici o di altra natura, diciamo così, “essenziale”. Ma è questo quello che serve per arrivare davvero dove si vuole. Sarà maledettamente duro? Ma sarà così, dovrà essere così. Almeno dal mio punto di vista.
La tua è una recitazione molto fisica. Spesso, osservandoti, sembra che lo spazio non ti contenga e abbia bisogno di dilatarsi insieme a te. Se questa percezione è giusta, quali sono le tecniche attraverso le quali arrivi ad ottenere un simile risultato e come riesci a collegarle, diciamo così, con le esigenze dell’istinto attoriale che possono sopraggiungere quando sei su un palco?
Io non riesco a pensare ad una recitazione non fisica. Nel mio caso specifico, poi, essendo partita dalla danza prima di approcciare al teatro, sarebbe praticamente impossibile considerare le cose sotto una luce diversa. Bisogna poi pensare che, quando sei in scena, ogni cosa rimanda al movimento e si mette in relazione con il tuo corpo: gli oggetti, la musica, le luci.
Il compito dell’attore, secondo me, è quello di creare delle convenzioni con i suoi movimenti, di saper far vedere allo spettatore quello che sta vedendo lui. Per fare ciò, tutto deve partire dall’immaginazione (se io in questo “Diari” vedo le strade di Parigi, riesco a farle vedere anche a chi mi sta guardando. È fondamentale che sia così!).
Nel caso specifico di questo spettacolo, per esempio, ogni singolo aspetto, anche il più minuto che gravita intorno ai ricordi di Marguerite e al suo diario, genera movimento e deve essere sviluppato in questo senso.
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In chiusura: emergenza Covid permettendo, quali sono i tuoi impegni certi per il prossimo anno? E come pensi che sarà il 2022 a teatro?
Al momento, parteciperò a “Sogno di una notte di mezza estate” nella versione di Giorgio Sangati, a “Una storia al contrario” dal libro di Francesca De Sanctis e, certo, porterò avanti i miei spettacoli.
Per quanto riguarda la situazione in generale, io spero innanzitutto che nel 2022 ci sia teatro. Sono preoccupatissima per quello che stiamo vivendo, è necessario capire al più presto dove sta andando questo mondo. Mi spaventano molto le persone, il loro modo di porsi rispetto a alla loro esistenza e ho una paura ancora più grande: al giorno d’oggi, il significato delle parole sembra essersi svuotato da dentro.
E in questa società di cui facciamo parte, mi sembra che si stia facendo di tutto per erodere i diritti un po’ alla volta. Andando avanti così tutto potrebbe crollare, e niente potrebbe più essere da considerare come reale. Un dramma per chi, come me, è interessato a raccontare la storia delle persone che vivono dietro ogni finestra, della loro vita straordinaria.