Introduzione al cinema dell’orrore, ieri e oggi
Qualche tempo fa pensavo al motivo che mi ha allontanato dalla religione.
Quando ero bambino mi piacevano molto le chiese e mi piacciono ancora, ma all’epoca sapevo di non essere soltanto un turista che guardava il presbiterio e gli affreschi e poi se ne andava a zonzo per la città. Facevo catechismo, frequentavo la cattedrale e la chiesa più piccola nel mio quartiere quasi abitualmente, e mi divertiva il modo in cui il parroco ci parlava del mondo, perché c’erano il bene e il male ed era evidente che il diavolo fosse qualcosa di cui avere paura, e nell’iconografia a cui avevo assistito in età infantile questa dicotomia era ben visibile.
Nei testi della domenica, a messa, qualche prete più anziano leggeva ancora di parabole in cui l’incursione del demonio si era insidiata nella vita di poveri cristiani, e tra i giovani credenti non ancora cresimati il libro dell’Apocalisse tuonava come qualcosa di profetico e terribile.
Ci immaginavamo cosa sarebbe successo e qualcuno di tanto in tanto si presentava trafelato nelle ore di scuola, durante la ricreazione, per dire che in televisione aveva sentito che l’Apocalisse sarebbe arrivata, o giurava di aver visto il diavolo o un angelo in sogno, o che aveva chiamato il 666 al telefono e qualcuno aveva risposto.
Delle regole impartite dal parroco ce ne fregavamo, nessuno le ascoltava, per cui nessuno temeva che una bugia o il nome di Dio invano avrebbero compromesso la nostra immagine, né che il diavolo si sarebbe presentato sotto forma di serpente, ma sapevamo che il diavolo esisteva, cioè che esisteva il male. Era qualcosa di cui ridere ma tutti quanti sapevamo in cuor nostro, fuori dalla dimensione ludica, che certe cose non si potevano fare, che in certi posti era meglio non andare da soli, che a una certa ora la città diventava troppo buia e bisognava correre a casa.
Dopodiché le chiese sono diventate quello che la società in linea generale ha deciso di diventare, una celebrazione del bene.
Il diavolo, come figura, non è scomparsa soltanto dall’iconografia ma anche dai sermoni domenicali, in cui si parla di parabole da latte alle ginocchia e si rassicura i bambini che il mondo è un posto di benefattori.
Se penso al cinema, mi rendo conto che le cose sono scivolate nella stessa maniera e con le stesse tempistiche, quindi da un cinema schietto a un cinema pedagogico, dal cinema rivolto agli adolescenti al cinema che parla degli adolescenti. Provate ad aprire un libro qualunque di un attuale ragazzo del liceo: gli stessi concetti sono reiterati in maniera ogni volta più semplice, fino a ridurli in niente, e gli autori evidenziano in grassetto e con i corsivi le porzioni di testo fondamentali, come se chi legge fosse mentalmente leso.
Gli adolescenti nati nel secondo Novecento avevano l’abitudine di vivere di più per strada, con dei genitori mai ossessivi come quelli moderni, in famiglie più numerose e quindi più dispersive. Vivere per strada e non avere un parental control – che oggi ha senso, perché i contenuti di libero accesso sono di più e più immediati – ti imponeva un impatto con il mondo più violento, e che esistesse il male nel mondo te lo insegnavano al catechismo o lo imparavi a tue spese. In quel mondo, il cinema horror non fece fatica a diventare un fenomeno generazionale, qualcosa con cui divertirsi, sì, ma anche crescere. Credo che sia sempre servito come forma schietta di educazione, prima che come intrattenimento. Un film dell’orrore ti dice che il male esiste ed è inutile cercare di debellarlo, non può venir meno e continuerà ad esserci dopo la nostra dipartita, come ci insegna il finale del primo Halloween.
Quello che mi affascinava da bambino era che il male, nei film, non aveva origini né potevo spiegarne logicamente l’operato – non sappiamo perché uno squalo decida di attaccare una spiaggia né perché Michael Myers sia cattivo oltre che immortale – e questo è anche ciò che ti intrattiene quando diventi adulto e l’orrore al cinema non ti fa più alcun effetto. Una volta questi film rappresentavano una prova di maturità, ma nel mondo di oggi non hanno più presa, perché non sono più un fenomeno generazionale, come lo sono i cinecomics, per esempio.
C’è una nuova generazione, educata alla sicurezza, alle premure genitoriali e a un cinema che ti dice che il sangue non c’è e che i buoni vincono, anche quando li credevi morti. Quale spazio per l’horror?
Tendenzialmente il nuovo cinema dell’orrore è fatto di titoli che vogliono spiegare l’inspiegabile. Nessuno negli anni ’70 si sarebbe mai chiesto perché Linda Blair nell’Esorcista veniva posseduta da Satana, mentre oggi è fondamentale sapere perché Annabelle, la bambola di cera, rompe i bicchieri e apre le porte.
Mi rendo conto che James Wan è stato il primo a inculcare una vera propria educazione allo spiegone, che non è più un momento di noia ma quasi la parte cruciale del film, come se il giallo si sostituisse all’orrore. C’è una retrospettiva per ognuno dei nuovi villain cinematografici, addirittura film dedicati (i cosiddetti spin-off) e speciali televisivi. Non si approfondisce l’impatto che questo personaggio ha sul pubblico di massa, che è zero, ma quali siano le sue origini reali e di finzione, quali siano i suoi antenati cinematografici e se ci sarà un prequel sulle origini della creatura.
A proposito di questo, qualche tempo fa osservavo che il cinema dell’orrore contemporaneo mira quasi esclusivamente al paranormale. Sbagliavo.
Osservando più attentamente le filmografie dei registi di oggi, mi sono reso conto che il male che viene raccontato è sempre un male terreno, umano. Nella filmografia di Eli Roth, uno dei nomi più importanti dell’horror contemporaneo, la storia è sempre quella: sono uomini contro uomini e quasi raramente entità soprannaturali, e quando queste ci sono, la dietrologia di cui sopra serve proprio a dare, anche ai fantasmi e ai mostri in genere, un connotato umano, spicciolo, a un pubblico che si rifiuta di accettare il sovrannaturale. È necessario sapere dove è nato lo spirito e perché si manifesta, come ucciderlo e chi può farlo. Anche in questi film, come nei cinecomics di prima, il sangue è quasi totalmente assente. Non è che non ci sia, ma anche quando c’è sembra che sia completamente fuori luogo.
Prendiamo ad esempio un successo più o meno recente, “Insidious” di James Wan. È un film del 2013 in cui si immagina che un bambino possa viaggiare per dimensioni esterne alla nostra, arrivando con il suo corpo astrale in una sorta di mondo rovesciato chiamato “Altrove”, popolato da demoni che lo hanno rapito. Anche il padre, scopriremo più tardi, possiede questo dono, e verso la fine del film si avventura nell’Altrove per recuperare il bambino. Arrivati al punto di catarsi del film, dovremmo aspettarci due cose: che il bambino sia morto, o che il bambino sia vivo ma in condizioni vegetative. Quando il padre entra nell’Altrove, invece, il figlio è bello e felice, incatenato a un palo mentre un demone, molto distante, ascolta del rockabilly su un mangiadischi come un fighetto dei nostri giorni.
Mi pongo quindi la domanda che altri prima di me si sono già fatti: cosa succede, se questi demoni ti prendono?
Cosa potrebbe accadere se disgraziatamente Annabelle dovesse riuscire ad averci, o se la suora (The Nun) di The Conjuring 2 – sempre James Wan – riuscisse a pararsi davanti ai nostri occhi, senza vie di fuga immediate? La risposta è: assolutamente niente. Non essendoci sangue e non essendoci un vero elemento inquietante, il cinema dell’orrore moderno, che riesuma vecchi bidoni del cinema passato come bambole, suore, cannibali, contestualizzando tutto a dovere, è un mix perfetto tra il puro manierismo indirizzato ai nostalgici e una ciotola zuccherina di caramelle gommose per ragazzini scemi, addormentati. In due parole soltanto: Stranger Things.