Charles Baudelaire: come un flâneur rivoluzionò la poesia
Charles Baudelaire, forgiatore dello stile bohémien, nasce il 9 aprile del 1821 a Parigi.
Esempio di un dandy dedito al lusso e allo sfarzo. La sua vita piena di debiti fu frutto di un’infanzia complicata, segnata dalla morte del padre e con il rendimento al liceo che non fu dei migliori. Anche il rapporto con il patrigno, un colonnello francese molto severo, non lo aiutò. Decise così di lasciare ben presto la Francia per partire verso l’India. Lì entrò in contatto con l’ignoto, scoprendo una passione esotica che si rintraccerà nelle sue opere.
Il rientro in Patria segnò, invece, una passo verso l’eccesso. Cominciò ad esprimere il suo essere romantico ma allo stesso tempo tetro. Esteta, passeggiatore distratto (flâneur), rivoluzionario e ribelle. Amante della vita notturna e degli eccessi ad essa collegati. Amava accompagnarsi con prostitute nonostante i continui problemi economici. Fu critico d’arte e giornalista. Ebbe modo di conoscere personaggi come Gautier, Balzac, Delacroix, Edgar Allan Poe.
Esponente chiave del simbolismo, fu anticipatore del decadentismo nonché fonte di ispirazione per autori come Rimbaud e Verlaine, i cosiddetti “poeti maledetti”, ma anche per gli scapigliati italiani (Emilio Praga). Fu il vero maestro di Marcel Proust.
I Fiori del Male
La sua grandezza fu nel creare scompiglio, nel rivoluzionare la poesia, nella semantica. Lo fa attraverso temi nuovi, come il viaggio, la morte, il rimorso, la sofferenza.
Con la sua opera più famosa “Les Fleurs du mal” (I fiori del male) contrappone il bene e il male, proponendo due soluzioni per sfuggire alla sofferenza intrinseca dell’uomo. Questa è chiamata da Baudelaire “Spleen”.
La prima via è proprio l’arte, la poesia. Attraverso la bellezza si può raggiungere l’Ideal, cioè la condizione ultraterrena che garantisce la serenità dello spirito. Una sorta di novello Seneca, per il quale nel “De tranquillitate animi” solo il saggio stoico era in grado di arrivare a questa condizione. Così per lo scrittore francese solo il poeta poteva raggiungere questo stato d’animo, rappresentato dalla metafora dell’albatro nella poesia “L’albatro”. Qui l’uccello è deriso dall’equipaggio di una nave che in realtà rappresenta la massa incapace di comprendere il poeta.
La seconda soluzione baudelariana fu quella che gli costò il processo. Per abbandonare lo Spleen bisognava abbandonarsi all’alcol, alla droga. Ovviamente in pieno contrasto con la morale e l’etica dell’epoca.
Charles Baudelaire, alcol e droga
Droga e alcol a cui Baudelaire dedica “Del vino e dell’hashish”, “Il poema dell’hashish” e “Un mangiatore d’oppio”, racchiusi ne “I paradisi artificiali”, un saggio del 1860.
Il poeta francese analizza con lucido distacco queste sostanze mostrando le perversioni più abbiette senza abbandonarsi a compiacimenti. Lo fa avendo provato tutto in prima persona, frequentando anche il “Club de Hashischins” (Club dei mangiatori d’Hashish). La sua è quindi un’esperienza diretta e di osservazione anche di ciò che accade nelle persone a lui vicine.
I paradisi artificiali rappresentano le droghe utili a stimolare la creatività dell’artista. Nonostante ciò Baudelaire affermò che “orrenda è la sorte dell’uomo la cui immaginazione, paralizzata, non sia più in grado di funzionare senza il soccorso dell’hashish o dell’oppio”.
Se la droga, quindi, sembra avere conseguenze negative, verso l’alcol e in particolare il vino ha un giudizio relativamente più positivo. Esaltatore della personalità dell’artista, del suo essere, tira fuori, con le giuste dosi, il meglio delle persone.
L’estasi provocata dalle droghe è invece illusoria e non alimenta la creatività. Ma se l’autore francese sembra giudicare negativamente in toto l’hashish in realtà non lo respinge completamente. Ne osserva gli effetti sugli artisti, sui filosofi e non sugli uomini qualunque poiché “un mercante di buoi non sognerà, non vedrà mai altro che buoi e pascoli”. Come a voler giustificarne un uso da parte di un’élite in grado di estrarne il meglio.
La confettura verde, poiché all’epoca questa sostanza veniva mangiata sotto forma di decotto composto da canapa, burro e oppio, faceva tendere l’uomo all’infinito. Gli fa mescolare colori, suoni, immagini. Annulla il tempo. Il rischio è la troppa esaltazione che ne deriva. Quasi un tendere alla divinizzazione.
Il vino sembra quindi una costante nella vita e nella poetica di Charles Baudelaire, tanto che gli dedicò una sezione de “I fiori del male”. Amava gustare il vino, in particolare il Borgogna rosso, ma non ne abusava. Non si ubriacava mai, perciò quanto lui scriva sul vino sembra essere stato dovuto più che altro all’osservazione dell’ubriachezza altrui. Contemporaneamente esalta Hoffman quando afferma che la musica non può fare a meno del vino. Ed esalta ancor più il “meraviglioso liquido”, sia per le gioie profonde che dona, nelle quali tutti i dispiaceri possono essere annegati, sia per lo stato sognante o per la seconda giovinezza che offre all’uomo che vi attinge.
Il vino, per Baudelaire è però anche pericoloso e potenzialmente nocivo. Ma è necessario perché “rende buoni e socievoli”. Il popolo che lavora sodo senza soddisfazioni e spesso vive delle deiezioni della città merita di berne. Esattamente come chi soffre. E qui fa l’esempio di Napoleone a Sant’Elena.
D’altronde come scrisse “oh gioie profonde del vino, chi non vi ha conosciute? Chiunque abbia avuto un rimorso da placare, un ricordo da evocare, un dolore da annegare, o abbia fatto castelli in aria, tutti hanno finito per invocarti, o dio misterioso celato nelle fibbre della vite”.
A 200 anni dalla sua nascita la sua arte e le sue idee rivoluzionarie sono ancora fonte di ispirazione. Come per Guccini che nella canzone “Addio” cita i versi finali della prefazione “Al lettore” e Franco Battiato che ha messo in musica “Invitation au voyage” come “Invito Al Viaggio” nel suo album “Fleurs”. Ma anche i Baustelle, Marracash e più recentemente il rapper Ernia che si ispira proprio al concetto di Spleen.