Cesare Pavese, punto cardine della letteratura italiana
Nato in un paesino delle Langhe nel 1908, la sua vita è stata tormentata, sia a livello familiare e sentimentale che politico. Orfano di padre in età infantile, si fa risalire a questo trauma iniziale il carattere chiuso e scontroso di Cesare Pavese che ha portato poi la sua vita ad un tragico epilogo nel 1950. La poesia della quale parliamo oggi si intitola Agonia ed ha una particolarità -come tutte le altre poesie contenute nella raccolta “Lavorare stanca” edita per la prima volta nel 1936- che è quella di staccarsi dalle correnti del tempo e di creare una poesia discorsiva, in contrapposizione con l’Ermetismo che in quegli anni dettava le regole con versi scarni, asciutti e apparentemente incomprensibili.
«Il mio gusto voleva confusamente un’espressione essenziale di fatti essenziali, ma non la solita astrazione introspettiva, espressa in quel linguaggio, perché libresco, allusivo, che troppo gratuitamente posa a essenziale.»
Con queste parole Pavese faceva riferimento a Giuseppe Ungaretti, denotando la propria avversione all’ermetismo che era allora agli albori in Italia. I versi di Cesare Pavese in Agonia sono in antitesi con il titolo della poesia e quindi con ciò che vogliono esprimere. Parlano di rinascita, parlano di speranza e di colori. Quei colori che non piangono, quelli che sono come un risveglio, quelli che la ragazza-protagonista cercherà uscendo per la strada.
Il contrasto del titolo con il contenuto dei versi crea un insolito ossimoro: il titolo dà l’idea di una tematica non propriamente speranzosa e tutto sommato, conoscendo un minimo l’autore e i suoi tormenti sarebbe stato perfettamente in linea. Invece lo stupore sopraggiunge quando verso dopo verso si delinea la speranza di vedere i colori, la caparbietà di non arrendersi nella ricerca di essi per le strade del mondo. La poesia ha un testo comprensibile, facile ed immediato, dove è possibilissimo ritrovarsi. È molto attinente al periodo storico che stiamo vivendo in quanto questo nostro tempo ha davvero bisogno di cercare e trovare colori in ogni luogo.
Agonia, tratta da “Lavorare stanca”, Cesare Pavese, 1936.
Girerò per le strade finché non sarò stanca morta
saprò vivere sola e fissare negli occhi
ogni volto che passa e restare la stessa.
Questo fresco che sale a cercarmi le vene
è un risveglio che mai nel mattino ho provato
così vero: soltanto, mi sento più forte
che il mio corpo, e un tremore più freddo
accompagna il mattino.
Son lontani i mattini che avevo vent’anni.
E domani, ventuno: domani uscirò per le strade,
ne ricordo ogni sasso e le strisce di cielo.
Da domani la gente riprende a vedermi
e sarò ritta in piedi e potrò soffermarmi
e specchiarmi in vetrine. I mattini di un tempo,
ero giovane e non lo sapevo, e nemmeno sapevo
di esser io che passavo-una donna, padrona
di se stessa. La magra bambina che fui
si è svegliata da un pianto durato per anni
ora è come quel pianto non fosse mai stato.
E desidero solo colori. I colori non piangono,
sono come un risveglio: domani i colori
torneranno. Ciascuna uscirà per la strada,
ogni corpo un colore-perfino i bambini.
Questo corpo vestito di rosso leggero
dopo tanto pallore riavrà la sua vita.
Sentirò intorno a me scivolare gli sguardi
e saprò d’esser io: gettando un’occhiata,
mi vedrò tra la gente. Ogni nuovo mattino,
uscirò per le strade cercando i colori.