Celestino V, il “gran rifiuto” fu veramente il suo?
Tra i passi della “Commedia” di Dante quello del III canto dell’Inferno è sicuramente uno dei più famosi e studiati. E anche uno dei più dibattuti. Se tra i banchi di scuola molti insegnanti danno per assodato che il famoso verso «Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto,/vidi e conobbi l’ombra di colui/che fece per viltade il gran rifiuto» si riferisca a Celestino V, in realtà sono circa 700 anni che l’identificazione del personaggio a cui si riferì il poeta fiorentino non è ancora certa.
Nel giorno dell’anniversario della nomina a pontefice di Pietro da Morrone (5 luglio 1294), meglio conosciuto come Celestino V, proviamo a fare chiarezza. L’Alighieri si riferiva veramente al religioso molisano che quasi quattro mesi dopo la nomina rinunciò alla carica?
Secondo alcuni studiosi no. Ma per molti l’identificazione con l’eremita è certa poiché Dante lo relega all’Inferno come punizione per aver lasciato il campo al suo acerrimo nemico Bonifacio VIII. La tesi pone le sue basi sulle parole del figlio del sommo poeta, Jacopo Alighieri che nel 1322 scrisse in “Chiose all’Inferno di Dante”: “Per più conoscenza qui d’alcuno della presente qualità si ragiona, il quale, essendo papa di Roma, e nominato Cilestrino, per viltà di cuore temendo altrui rifiutò il grande ufficio apostolico di Roma”.
Un altro figlio di Dante, Pietro, inizialmente sembrò avallare la posizione del fratello. Forse dopo l’incontro con Petrarca, che nel “De vita solitaria” esaltò la figura di Celestino V, cominciò a valutare l’ipotesi che il padre potesse riferirsi addirittura a Diocleziano, primo ed unico imperatore di Roma ad abdicare.
Insomma il problema dell’identificazione di chicchessia con il famoso verso dantesco fu argomento già coevo ai primi anni di vita del poema. Come ad esempio la tesi di Guido da Pisa che sosteneva l’idea che Dante si riferisse al Papa, ma che costui andava visto positivamente in quanto il gesto fu coerente con la sua vita umile e non dettato da una pusillanimità che il poeta fiorentino non colse.
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Con il passare dei secoli le tesi furono tutte il contrario di tutte. Nell’Umanesimo gli studiosi furono più propensi all’identificazione con Esaù, il figlio di Isacco, partendo dalle idee (comunque non proprio chiare) di Boccaccio. Ma nel Rinascimento il nome di Celestino V tornò di moda.
Fino ad arrivare al ‘900 dove la figura del papa duecentesco venne sostenuta da studiosi come Carlo Grabher e Francesco Mazzoni.
Per quanto riguarda altre identificazioni, come già citato, Boccaccio in “Esposizioni sopra la Commedia di Dante” sostenne l’idea che Esaù rinunciò ad essere riconosciuto come il primogenito di Isacco in favore del fratello Giacobbe solo per poter mangiare una minestra.
“Iacob rispose che non gliela darebbe, se egli non rifiutasse alle ragioni della sua primogenitura e concedessele a lui. Per la qual cosa Esaù, tirato dallo appetito del mangiare, rifiutò ogni sua ragione e concedettela a Iacob”.
Rispetto a Celestino V, la figura di Esaù trovò molti meno tifosi. Nel ‘400 infatti l’Anonimo fiorentino quasi per dovere di cronaca lo citò nei suoi scritti in quanto in quel periodo il nome del personaggio biblico andava maggiormente. E ancora Benvenuto da Imola e Matteo Chiromono da Faenza furono studiosi che proposero con forza l’identificazione con Esaù.
Il solo fatto che letterati come Boccaccio potessero pensare di escludere Celestino V dall’essere identificato come il personaggio incontrato da Dante nell’Antinferno, pone in essere il dubbio.
Nel ‘900 infine hanno avuto maggiore vigore le teorie secondo cui l’autore del gran rifiuto fosse Ponzio Pilato. Il prefetto romano che scelse di lavarsi le mani e non salvare Gesù, nonostante ne avesse riconosciuto la figura. Tra i sostenitori di questa idea ci sono Pascoli, cautamente Sapegno (forse il maggiore esperto di Dante del 20° secolo), Lanza.
In particolare Nicolino Sapegno scrisse alcune righe esplicative della figura che Dante inserì tra gli ignavi.
“L’identificazione rimane dunque assai incerta, ed ha avuto fortuna soprattutto perché ancor meno persuasive riescono quasi tutte le altre proposte avanzate da questo o quello studioso. Oltre a quello di Esaù, già ricordato, si son fatti i nomi di Pilato, di Giuliano l’Apostata, di Romolo Augustolo, di Giano della Bella, di Vieri dei Cerchi, e altri. Tra questi quello di Pilato sembra senz’altro il più attendibile, perché il suo gesto di viltà, sia per la gravità intrinseca, sia per la rinomanza proverbiale che ne venne a chi l’aveva commesso. E il solo cui s’adatti appieno la qualifica di “gran rifiuto”. Del resto, a guardar bene, la questione così a lungo dibattuta appare irrilevante. La figura dell’innominato non ha nel contesto un suo risalto specifico; è piuttosto un personaggio emblema, termine allusivo di una disposizione polemica, che investe non un uomo singolo, ma tutta la schiera innumerevole degli ignavi”. (D. Alighieri, “La Divina Commedia” a cura di N. Sapegno)
Pascoli invece vede erroneamente nella punizione degli ignavi una croce, che invece Dante narra essere “un’insegna” senza aggiungere ulteriori particolari.
Celestino V, Diocleziano, Esaù, Ponzio Pilato e altri personaggi minori in circa 700 anni continuano ad alimentare il dibattito su chi fosse il protagonista dei versi danteschi. Ma soprattutto il Papa è stato colui che ne ha subito maggiormente quella che oggi verrebbe definita una shitstorm. Tra i banchi di scuola è lui il primo, e quasi sempre unico, accusato di essere il protagonista del “gran rifiuto”. Una vita condotta secondo i canoni e i dogmi della religione cattolica, venendo anche beatificato, praticamente cancellati da questa identificazione che di fatto rimane ancora molto incerta.