“Candyman”, l’horror politico di Nia DaCosta e Jordan Peele
È uscito questo 26 agosto 2021 nelle sale italiane “Candyman”, seconda pellicola della regista statunitense Nia DaCosta. Il film, sequel di “Candyman – Terrore dietro lo specchio” (1992) di Bernard Rose, è stato scritto dalla regista insieme a Jordan Peele, vincitore del premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale nel 2018 per il suo debutto cinematografico “Scappa – Get Out”.
E quando si parla di Jordan Peele non si parla di semplici film horror. Il regista statunitense, difatti, è famoso per il modo in cui veicola le proprie pellicole con lo scopo di lanciare denunce di natura politica. Manifesti politici travestiti da film dell’orrore, un vero e proprio Cavallo di Troia usato da Peele per lanciare messaggi scomodi e parlare della triste e ancora molto attuale condizione di razzismo in cui si trovano a vivere le comunità afroamericane.
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Lo aveva fatto con “Scappa – Get Out” nel 2017 e lo fece nella pellicola successiva “Noi” (2019), entrambi intrisi, oltre che di denunce, di una forte rivendicazione di dignità del proprio popolo di appartenenza. E anche in “Candyman”, Peele non si risparmia. Attraverso le vicende di un personaggio immaginario, mette sul tavolo ancora una volta tematiche scomode e denunce sociali.
MA CHI È CANDYMAN?
Il personaggio nasce dalla penna di Clive Barker ed è il protagonista del racconto “The Forbidden”, creato per il film del 1992 citato in precedenza “Candyman – Terrore dietro lo specchio”, il quale ha avuto due seguiti. Candyman era un uomo di colore e figlio di uno schiavo che, grazie all’innato talento artistico, dopo la Guerra di Secessione, trovò fortuna facendo ritratti. Un giorno, un ricco proprietario terriero gli commissionò il ritratto della propria giovane e bella figlia. Ma Candyman fece un errore che gli costò caro. I due si innamorarono e la ragazza rimase presto incinta.
Quando il padre della giovane scoprì quanto accaduto, assoldò degli uomini affinché lo torturassero, così questi tagliarono al giovane una mano. Nei pressi della scena dell’omicidio si trovava un alveare e le api iniziarono a masticare lentamente la pelle del malcapitato. Il soprannome “Candyman” nacque proprio in quella macabra occasione. Uno degli uomini pagati per compiere il violento gesto, quando vide che alcune delle api avevano lasciato tracce di miele sul corpo dell’uomo, prendendolo in giro lo soprannominò “Candyman”.
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Descritto come un brutale assassino, la leggenda narra che se viene pronunciato 5 volte il suo nome davanti ad uno specchio, Candyman apparirà e compirà la sua vendetta armato di un uncino, posizionato al posto della mano che gli venne tagliata.
Lo spirito vendicativo non si ferma ed è intenzionato più che mai a mettere in atto la propria personale vendetta cieca travestita da giustizia verso quelle azioni macabre e ingiuste che lui, molti prima di lui e altrettanti dopo di lui, hanno dovuto subire a causa del colore della propria pelle.
Il punto è proprio questo. Candyman più che una persona singola rappresenta una categoria, una classe sociale, la quale si è vista maltrattare, giudicare, schiavizzare e accantonare in un angolo per troppo tempo.
Ed ecco che in questo sequel del 2021 Jordan Peele e Nia DaCosta vanno ad attualizzare una storia portata sullo schermo quasi trent’anni fa, in un momento in cui il Black Lives Matter è argomento assai discusso ed estremamente delicato, soprattutto negli Stati Uniti.
IL FILM
Carico di denunce sociopolitiche che vanno a sottolineare la piaga del razzismo, la pellicola racconta le vicende di Anthony McCoy (Yahya Abdul-Mateen II), pittore afroamericano che vive a Chicago, nel quartiere di Cabrini-Green, un tempo zona estremamente degradata adibita a ghetto per i cittadini afroamericani, insieme alla compagna Brianna (Teyonah Parris).
Una sera il fratello di quest’ultima va a fare visita alla coppia e inizia a raccontare di una macabra leggenda, nata proprio a Cabrini-Green, incentrata sul personaggio assetato di sangue, “Candyman”. Accusato di aver commesso brutali omicidi negli anni ’70, l’uomo venne trovato e ucciso a sangue freddo dalla polizia, ma a quanto pare il ricercato si rivelò non essere lui.
Da qui Anthony, nel bel mezzo di una crisi creativa, trae ispirazione dalla leggenda di Candyman, e inizia a scavare nella storia di Cabrini-Green, scoprendo una realtà sconcertante anche sul proprio passato.
Una pellicola senza dubbio interessante e ben riuscita quella dei due registi. Andando a tirare fuori dal cassetto una vecchia storia già portata più volte sullo schermo, rimodellano il personaggio, rendendolo quasi una sorta di paladino della giustizia della propria comunità, mosso da un desiderio di vendetta e di riscatto sociale. Un po’ come era stato per i personaggi di “Noi”.
E si sa, in questo periodo storico trattare e parlare di queste tematiche così delicate non è semplice. Ma bisogna anche stare attenti a non incappare nei clichè. Se c’è una critica che si può muovere a “Candyman” è che spesso questo si rivela un po’ troppo manicheo. Una distinzione a tratti esasperata e generalizzata tra persone bianche e di colore, tra buoni e cattivi.
Lo stesso vale per la polizia americana, la quale viene mostrata spesso e volentieri come fredda e senza scrupoli nei confronti della popolazione afroamericana. Certo, queste situazioni purtroppo rispecchiano spesso la realtà. Ma la verità è che non è mai giusto e corretto generalizzare ed estremizzare a tal punto da far di tutta l’erba un fascio.