Quando la cancel culture fa più male a noi stessi che alla Russia
Da quando i cinesi inventarono la polvere da sparo, la forza di un uomo cominciò a non essere misurabile con i combattimenti corpo a corpo. La guerra in Europa, negli ultimi due secoli del Medioevo, cominciò a cambiare. Il coraggio della cavalleria e della fanteria furono sorpassati dalle armi da fuoco. Una continua evoluzione che ha portato i conflitti ad essere più una questione di ingegneria che di coraggio.
Le ostilità belliche hanno mille sfaccettatura, mille volti, mille campi di battaglia. E l’attuale guerra tra Ucraina e Russia, con la Nato che osserva e finanzia, non è da meno. È forse questa la prima vera disputa che si combatte anche sui social, sulla diffusione delle fake news, della limitazione di notizie. Sebbene anche quanto avvenne in Siria aprì le porte alla diffusione quasi in tempo reale di video di attacchi, uccisioni e quant’altro. Per quanto riguarda la divulgazione di notizie false, o di manipolarle per dare supporto a questa o quella parte, già da un secolo ne abbiamo riscontri. Invece i social, i gruppi di chat che in tempo reale mettono in circolazione notizie e video, sono la vera novità per quanto riguarda la guerra europea più partecipata degli ultimi 50 anni. Partecipata nel senso che anche le popolazioni per ora non interessate hanno un coinvolgimento emotivo maggiore dovuto alla possibilità di reperire più facilmente materiale legato agli avvenimenti.
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E questa possibilità ha messo in moto però una reazione politico-culturale che tende a censurare la fazione russa. Infatti se le sanzioni economiche sono un provvedimento politico atto a impaurire Putin, le ripercussioni su atleti, cantanti, direttori d’orchestra, filosofi, scrittori, corsi universitari, sembrano essere l’ennesimo braccio armato della cancel culture.
Il caso dell’Università della Bicocca a Milano di sospendere il corso di Paolo Nori su Dostoevskij per “evitare polemiche” in merito alla situazione Ucraina, ha creato infatti ancora più polemiche. Tanto da fare quasi subito marcia indietro.
“Essere un russo è una colpa”, aveva commentato il professore visibilmente scosso– “Anche essere un russo morto. Quello che sta succedendo in Ucraina è orribile, e mi viene da piangere solo a pensarci. Ma queste cose qua sono ridicole: un’università italiana che proibisce un corso su Dostoevskij, non ci volevo credere. Bisognerebbe parlare di più di Dostoevskij. O di Tolstoj, primo ispiratore dei movimenti non violenti, molto ammirato da Gandhi che poi ha perfezionato la pratica. Questa cosa che l’università italiana proibisca un corso su Dostoevskij per evitare ogni forma di polemica è incredibile”.
Risultato? L’insegnante su Facebook annuncia che sposterà altrove il suo corso. “Il prorettore di Bicocca Casiraghi racconta i motivi per cui hanno sospeso il mio corso. Per «ristrutturare il corso e ampliare il messaggio per aprire la mente degli studenti. Aggiungendo a Dostoevskij alcuni autori ucraini». Non condivido questa idea che se parli di un autore russo devi parlare anche di un autore ucraino, ma ognuno ha le proprie idee. Se la pensano così, fanno bene. Io purtroppo non conosco autori ucraini, per cui li libero dall’impegno che hanno preso e il corso che avrei dovuto fare in Bicocca lo farò altrove (ringrazio tutti quelli che si sono offerti, rispondo nel giro di pochi giorni)”.
Nori non è solo un traduttore e blogger, scrittore, autore di una cinquantina di romanzi, ma anche e soprattutto docente al Dipartimento di studi umanistici Iulm dove insegna traduzione editoriale della saggistica russa. Un totem in materia dunque.
Una censura paventata ma che ha lasciato e continuerà a lasciare strascichi. Soprattutto in una Milano già sotto l’occhio del ciclone per le parole censorie e velatamente dittatoriali del sindaco Sala. Il primo cittadino meneghino aveva infatti invitato il direttore d’orchestra russo Valery Gergiev a prendere posizione contro l’intervento bellico voluto da Putin altrimenti la Scala sarebbe stata pronta a “interrompere la collaborazione”.
La Scala ribadisce: “la sua vicinanza ai cittadini ucraini vittime dell’aggressione e ai tanti cittadini russi che in questi giorni hanno coraggiosamente espresso la loro condanna della guerra. Il nostro teatro resterà sempre un luogo di confronto e di dibattito tra diverse tradizioni e culture“. Fatto sta che il russo, reo di essere un sostenitore e amico di Putin (quantomeno in passato), è stato sostituito dal 27enne Timur Zangiev, anche lui proveniente dalla Grande Madre, per la direzione de “La dama di picche”. Lo stesso Sala ha sottolineato come «siano otto i teatri europei che hanno allontanato Gergiev. Sbagliano tutti, possibile? Vorrei precisare che non è stata chiesta nessuna abiura a Gergiev, ma di condannare la guerra. È sbagliato? Non so».
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Che la guerra sia da condannare è fuori discussione. Ma altrettanto gretto è il voler ottenere dichiarazioni a tutti i costi in linea con il pensiero unico imperante. Soprattutto qualora quelle parole potrebbero costare molto più che un licenziamento.
“L’intimidazione nei confronti del direttore d’orchestra Gergiev da parte della Carnegie Hall di New York e della Filarmonica di Monaco, e ora anche della Scala di Milano ha il sapore di una odiosa vendetta. Resta una cosa sconcertante, inverosimile, grottesca, ed è esattamente lo stesso che rimproverano a Putin”. Così Vittorio Sgarbi ha commentato l’accaduto. Sottolineando come la cultura non debba essere usata come arma di ricatto.
Ma la “deputinizzazione”, o “derussisazione”, o meglio ancora la demonizzazione della Russia non è finita qui. Soprattutto nel campo della cultura. Ci ha pensato la Siae infatti a sospendere “il pagamento dei diritti d’autore alle società russe”, come si può leggere sull’account Twitter ufficiale dell’ente pubblico. La vicinanza al popolo ucraino promossa dal presidente Mogol passa però però sul danneggiamento degli artisti musicali russi.
La realtà distopica che Bradbury immaginò nel suo “Fahrenheit 451” è molto simile. Se lì venivano bruciati i libri, se la propaganda era a senso unico e il pensare era in qualsiasi modo disincentivato, ora il prendere le parti dell’Ucraina è quasi un dovere. Non è accettato, dal pensiero unico imperante, un’analisi oggettiva che preveda il capire (neanche appoggiare) le rivendicazioni russe. Qualsiasi legame con la realtà di Putin deve essere bloccato. Censurato. Condannato. Un mondo di gessetti colorati che va solo in un’unica direzione. Dove la diversità di pensiero viene decantata ma non accettata.
E anche nel mondo dei libri la chiusura al mondo russo trova terreno fertile. Avviene, infatti, che alla Fiera del libro per ragazzi di Bologna “la Bologna Children’s Book Fair, insieme alle sue iniziative collegate, condanna la guerra dichiarata dalla Russia nei confronti dell’Ucraina” e “sospende ogni collaborazione con le organizzazioni ufficiali russe per la partecipazione alla prossima edizione della fiera con effetto immediato”. Ma risulta incoerente la sottolineatura degli organizzatori riguardo i libri come “ponti tra le culture e mai come oggi l’industria editoriale, per bambini, ragazzi e per tutti i lettori, è di fondamentale importanza per costruire la pace”. Questi ponti sembrano infatti essere stati tagliati.
Se da un lato sono le bombe, i missili, il nucleare, a spaventare, dall’altro c’è anche questa volontà di imporre un unico pensiero che è una conseguenza della guerra. Una dittatura del sorriso, fatta passare per democrazia, ma che tende a escludere chi la pensa diversamente. Ma anche chi solo per legami di amicizia, di parentela o di nascita abbia a che fare con quel mondo che viene indicato come il male assoluto. Un pericolo, questo, da non sottovalutare.
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