Bridget Jones è una di noi (?)
Decisione numero uno: ovviamente perdere dieci chili. Numero due: mettere sempre a lavare le mutande della sera prima. Ugualmente importante, trovare un ragazzo dolce e carino con cui uscire evitando di provare attrazione romantico-morbosa per nessuno dei seguenti soggetti: alcolizzati, maniaci del lavoro, fobici dei rapporti seri, guardoni, megalomani, impotenti sentimentali o pervertiti. E soprattutto, non fantasticare su una particolare persona che incarna tutti questi aspetti…
C’è chi riconosce a prima vista i buoni propositi de “Il diario di Bridget Jones” e chi ha assolutamente bisogno di un rewatch. Soprattutto in vista dell’uscita del quarto capitolo che riporterà Renée Zellweger a vestire i panni dell’amatissima Bridget al cinema.
Sin dall’uscita dal primo film tratto dai romanzi bestseller di Helen Fielding nel 2001, il personaggio di Bridget Jones è entrato nell’immaginario comune, perché così diverso dalle protagoniste delle romcom dei primi anni Duemila e così tanto simile alle giovani donne davanti allo schermo.
L’iconica protagonista è una trentenne londinese che affida alle pagine di un diario i propri buoni propositi e le proprie disavventure. Per interpretare il ruolo che le valse la nomination all’Oscar, Renée Zellweger ha dovuto seguire una dieta a base di pizza e gelato per mettere su una decina di chili: la sua Bridget Jones è una donna con curve e forme – non abbastanza valorizzate da uno stile discutibile. Un po’ sovrappeso, ma quanto basta per farla sentire non adeguata ai modelli di bellezza che dominano le pagine dei settimanali.
Quello che rende Bridget così tanto Bridget Jones è soprattutto la sua personalità: un’impacciata trentenne un po’ nevrotica che lavora in ambito pubblicitario, che vive il suo essere single con frustrazione, che si dimena – con non poche difficoltà – tra una madre tanto attenta alle apparenze quanto infantile e pressante, e il suo rapporto compulsivo con sigarette, alcool e cibo.
Una donna molto legata ai suoi genitori e circondata da amici, che confida ogni suo pensiero – dal più profondo al più istintivo commento -, che si consola guardando la tv, mangiando una vaschetta di gelato avvolta in un piumone.
Per un’intera generazione è stato impossibile non riconoscersi in Bridget, ritratto dolce amaro di una trentenne che non ha trovato un equilibrio nella propria vita, di cui è quasi perennemente insoddisfatta, e che si ritrova alle prese con pressioni sociali, familiari e autoimposte.
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Sembra essere proprio questa la chiave del successo de “Il diario di Bridget Jones“: si pensi che il primo libro della giornalista Helen Fielding uscito nel 1996 raggiunse le 15 milioni di copie vendute, mentre l’adattamento cinematografico affidato all’amica Sharon Maguire – su cui l’autrice ha modellato il personaggio di Shazzer, amica e confidente femminista di Bridget – ha ottenuto 282 milioni al botteghino.
Un successo – dovuto anche ad un cast d’eccezione che comprende anche Hugh Grant e Colin Firth – che ha portato alla produzione del secondo e terzo capitolo, “Che pasticcio, Bridget Jones!” e “Bridget Jones’s Baby” con Patrick Dempsey, e oggi ad un quarto film.
Il quarto film su Bridget Jones
Lo scorso maggio sono iniziate le riprese del quarto film, “Bridget Jones – Un amore di ragazzo“, in cui tornerà Hugh Grant. L’attore inglese, in una recente intervista, ha “spoilerato” l’assenza di Colin Firth.
Non troppo sorprendente per chi ha già letto il quarto romanzo uscito nel 2013, in cui ritroviamo una Bridget vedova a soli 51 anni, a destreggiarsi tra due figli e i problemi di sempre – alcol, fumo e peso -.
Se la protagonista mantiene la sua vis comica, cambia tutto il mondo intorno a lei, rispetto a quell’ormai lontano 2001: nell’era dei social e delle app di incontri, ora Bridget si muove in un nuovo mondo ricco di nuove tecnologie e nuovi standard.
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Un elogio della donna ordinaria(?)
“Il diario di Bridget Jones” ha conquistato il botteghino come un ritratto divertente e senza scrupoli, anche se per certi versi superficiale ed incline alla banalizzazione. Ma forse la forza del film – e del romanzo – sta proprio in questo: nella capacità di sorridere in modo leggero e disimpegnato su una ragazza over twenty, una delle tante.
Bridget Jones è una di noi. Un’affermazione talmente sentita che sembra quasi una banalità.
È una di noi quando scivola da una figuraccia all’altra a causa della sua goffaggine e del suo essere così impacciata. È una di noi mentre si ripromette di perdere qualche chilo ogni volta che stila i buoni propositi, combatte contro la sua cellulite e indossa biancheria contenitiva, ma sempre nelle occasioni sbagliate… e ogni tanto sceglie di vestirsi come preferisce – anche se i suoi gusti appaiono un po’ discutibili.
È una di noi quando prova a seguire ricette nuove viste in tv, ma poi si ritrova con una cena tinta di azzurro. Quando si ritrova a passare l’ennesima serata da sola a casa e cerca consolazione in un barattolo di gelato da mangiare anche controvoglia davanti la tv, avvolta in una coperta. È una di noi quando si ritrova continuamente a combattere e gareggiare con l’idea di avere il corpo perfetto, il lavoro perfetto e il matrimonio perfetto, terrorizzata dal tempo che passa e dalle pressioni della società, in primis della sua stessa famiglia.
Ci piace che sia una di noi quando conquista due uomini diversi con proprie caratteristiche differenti – la sua sensualità e il suo carattere. Ci piace soprattutto perché non affronta un cambiamento radicale – soprattutto un restyling o una perdita di peso – per riuscire nei suoi obiettivi personali e lavorativi. Ci piace perché ci insegna che possiamo piacere così come siamo.
Mark: Quello che cerco di dirti …in modo molto confuso, è che in effetti…, probabilmente, malgrado le apparenze, tu mi piaci. Da morire.
Bridget: A parte il fatto che fumo, che bevo, che ho una madre volgare, che soffro di diarrea verbale…?
Mark: No, tu mi piaci da morire, Bridget, così come sei!
In realtà, però, è proprio questo che ci fa chiedere se la saga sia propriamente un elogio della donna comune. Effettivamente Bridget Jones non è una paladina della libertà di essere come si è, ma è anzi costantemente in contrasto con il suo corpo e con la sua personalità, in un rapporto effettivamente malsano.
Non solo: in un film ricco di cliché, Bridget Jones diventa quasi una caricatura. Anzi, togliamo pure il “quasi”. Tra il capo bello e arrogante, il difensore dei diritti umani romanticamente impacciato, scazzottate nelle fontane, zoom su scollature e glutei, l’amico arci-gay, e chi più chi ne ha chi ne metta, anche Bridget diventa una piccola macchietta.
Un personaggio che non cambia per piacere agli uomini, ma non tanto per una scelta determinata e fiera, quanto in realtà perché non riesce a ottenere i cambiamenti che desidera. Effettivamente nella caratterizzazione di Bridget non c’è alcuna evoluzione.
Anzi l’intera saga sembra mostrarci come Bridget Jones riesca ad essere felice, in un percorso tra alti e bassi, a crescere dal punto di vista lavorativo, a trovare l’amore e nel frattempo diventare una “dea del sesso“, nonostante sia così una donna ordinaria.
Siamo onesti: la maggior parte degli spettatori si ritrova abbastanza sorpresa nel vedere Bridget Jones contesa tra due uomini del calibro di Hugh Grant e Colin Firth, o ancora quando si scopre che il padre di suo figlio potrebbe anche essere uno come Patrick Dempsey. Verrebbe quasi da dire “addirittura“, quando in realtà non dovrebbe esserci nulla di sorprendente o straordinario.
Il rischio è che si passi da “Bridget Jones è una di noi” a “se ce l’ha fatta lei…”. In questo senso l’intera saga rischia di non essere propriamente un elogio della donna comune. Il successo dei film potrebbe essere quasi definito diseducativo perché tutto si basa sul “nonostante“.
Bridget riesce in tutto nonostante abbia qualche chilo in più, nonostante non sia una “strafiga”, nonostante sia impacciata, nonostante, nonostante… Nonostante sia una donna ordinaria, nonostante sia una Bridget Jones qualunque.