La voce italiana dell’Afghanistan: l’intervista alla giornalista di guerra Barbara Schiavulli
“Raccontare le storie delle persone, il loro forte coraggio e la loro dignità”. Questo è ciò che ha portato Barbara Schiavulli a voler diventare giornalista di guerra, sin da quando frequentava la scuola media.
Avendo iniziato a scrivere di cronaca nera nel 1997 per il Gazzettino di Venezia, poco dopo si è trasferita a Gerusalemme per seguire da vicino il conflitto israelo-palestinese fino a diventare spesso l’unica corrispondente italiana di guerra a raccontare dal vivo l’aspetto più violento della storia dell’ultimo ventennio.
“Tra i tanti posti in cui uno va” confessa la Schiavulli in un’intervista telefonica rilasciata a The Walk Of Fame, “ce n’è sempre uno che gli conquista il cuore: quello per me è stato l’Afghanistan. Non so spiegare perché, sarà perché a me piace raccontare le persone e perché penso che la storia di ciascun afghano meriterebbe un film”.
Un salto indietro nella conquista dei diritti umani. “In Afghanistan c’è una situazione di guerra dagli anni Novanta per cui la conquista di ogni semplice diritto è stata quasi sempre frutto della morte di qualcuno che ha combattuto per questo. Finora non si poteva parlare di chissà quali diritti ma certo, nelle città (perché nelle zone rurali il discorso è troppo diverso) c’erano delle donne che guidavano, studiavano, lavoravano o comunque potevano essere libere di essere di uscire di casa da sole senza che nessuno le frustasse o uccidesse. C’era almeno la speranza di riuscire a conquistare dei diritti. Speranza che dal ritorno dei talebani non c’è più”.
Il ruolo dei giornalisti
Ogni dittatura si fonda sull’ignoranza e sul voler limitare ogni accesso alla cultura, vietando televisione, internet, libri e musica. Proprio in questa fase nella storia afghana Barbara Schiavulli dice: “I giornalisti, soprattutto quelli locali, sono degli eroi. Perché mentre di solito nelle altre dittature si bloccano i servizi di radio e televisioni, i talebani risolvono il problema direttamente uccidendo i giornalisti”.
Hijab, chador, niqab, abaya e burqa: fede diversa, velo diverso
“Attenzione” fa notare la giornalista “al momento non c’è ancora l’obbligo ufficiale di indossare il burqa in Afghanistan (come negli anni Novanta), ma ancora niqab e abaya”. Veli diversi che coprono solo i capelli, altri simili a tuniche, finanche a lasciare scoperti solo gli occhi o nemmeno quelli. “In ogni zona del Medio Oriente la donna è più o meno coperta in base alla fede e alla legge, ma anche all’essere più o meno conservatrice. E come in quella ebraica e altre, anche nella fede islamica c’è chi porta l’indumento come simbolo della propria fede e con orgoglio.”
Il bisogno di offrire la propria voce
Avendo vissuto in loco per tanti anni, anche sotto copertura, Barbara Schiavulli ha conosciuto e riportato talmente tante storie che non saprebbe sceglierne una che l’abbia segnata più di altre. “Io ho scelto di dare voce soprattutto alle donne, le cui storie non sono mai state raccontate quando sul posto c’erano solo giornalisti uomini. Finora in Afghanistan c’erano circa 700 giornaliste, dal ritorno dei Talebani non sono più di 70 in tutto il Paese. Ecco anche perché devo dar loro una voce.”
La Schiavulli spera di riuscire a tornare in Afghanistan a fine mese e nel frattempo si impegna nel far conoscere la storia e le caratteristiche della popolazione afghana agli Italiani, per poter accogliere ed aiutare i circa 3500 civili appena arrivati. Inoltre partecipa ad eventi di sensibilizzazione e raccolte fondi, come quello che l’ha vista protagonista ad Avezzano (AQ) lo scorso venerdì 3 settembre insieme a Flavia Mariani, responsabile dell’associazione Nove Onlus a sostegno delle donne afghane dal 2012.
“Gli Italiani sono molto attivi e solidali” dice la giornalista “ma spero non sia solo una cosa momentanea. Adesso la situazione afghana è al centro dell’onda mediatica, ma sarà così dura ancora a lungo. Per questo continuerò a raccontarvelo in Italia ancora per un po’, ma poi devo tornare a scrivere lì. In Afghanistan”.
di Sara Paneccasio