Arthur Conan Doyle, Sherlock Holmes e il giallo deduttivo
Arthur Conan Doyle viene ricordato quasi esclusivamente per le storie dedicate alle avventure di Sherlock Holmes: quattro romanzi e cinquantasette racconti che hanno reso immortale il loro creatore ma soprattutto il loro protagonista.
Un successo che Conan Doyle non ha mai apprezzato, peccando di presunzione nel ritenere che rubasse attenzione alle altre sue opere di carattere storico e avventuroso (uno su tutti: il ciclo del Professor Challenger, che con Il mondo perduto, pubblicato nel 1912, precorre il Jurassic Park di Michael Crichton), e a quegli studi sullo spiritismo a cui, a dispetto di tutti e non senza correre rischi di carattere sociale e personale, si dedicava con fervore addirittura ossessivo.
Il buon dottore tentò di uccidere Sherlock in un racconto del 1894, L’ultima avventura (The Final Problem), tentativo fallito miseramente, i suoi numerosi lettori non ci stanno e Conan Doyle è costretto ad arrendersi alle loro proteste: cedendo alle pressioni del pubblico e degli editori farà ritornare il suo celebre Sherlock Holmes nel racconto L’avventura della casa vuota e con il suo romanzo più famoso, Il mastino dei Baskerville.
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Arthur Doyle (Conan, in realtà, è il suo secondo nome, ma sarà lui stesso a utilizzarlo come un cognome) nasce in Scozia il 22 maggio 1859 e ha un’infanzia difficile, segnata dai maltrattamenti inflitti da un padre alcolista ed autoritario. Riesce con grande tenacia nonostante tutto a studiare medicina e parte per quella che sarà l’unica avventura della sua vita: una traversata per i mari artici come medico di bordo di una baleniera.
Il futuro scrittore mostra a bordo della nave una tempra inaspettata, riuscendo a farsi promuovere ramponiere e partecipando attivamente alla caccia di svariate bestie artiche, alla mattanza delle foche e all’uccisione di un paio di balene. L’indimenticabile esperienza sulla Hope, questo il nome dell’imbarcazione, si rifletterà in molti testi, uno su tutti Il capitano della Pole Star, del 1883. Si tratta di uno dei primi racconti di Arthur Conan Doyle con un notevole successo di pubblico ma i lavori letterari che più interessano i numerosi fan sono ovviamente quelli che seguono le indagini di Sherlock Holmes e del suo aiutante Watson.
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Conan Doyle inventa il giallo deduttivo inspirandosi a I delitti della rue Morgue di Edgar Allan Poe, e scrive il primo romanzo con la coppia di investigatori nel 1887, nelle lunghe ore passate ad attendere vanamente l’arrivo dei pazienti in uno studio medico improvvisato e drammaticamente vuoto.
Doyle approfitta nel suo lavoro di uno stratagemma ambiguo ma ormai canonico ed usuale nella struttura narrativa del giallo: attribuisce, nella finzione letteraria, il ruolo di autore-narratore che dovrebbe appartenergli, ad un personaggio, il dottor James (John?) Watson. Dotato di scarse capacità intuitive, degno contraltare alla figura del grande detective, Watson sembra con questi ridar vita alla collaudata formula di Don Chisciotte e del suo degno scudiero, come nel capolavoro cervantino, infatti, anche qui è in atto, in un continuo gioco di rimandi e di riflessi, una multiforme e continua inversione e confusione di reale ed immaginario. Al Cervantes che si autocoinvolge come personaggio nella sua opera corrisponde, nell’epopea holmesiana, l’ingenuo dottor Watson che veste le parti non solo di autore ma anche di interprete-lettore.
Uno studio in rosso ripercorre la storia di John Watson, medico tornato ferito dalla guerra in Afghanistan, e introduce le caratteristiche caratteriali fondamentali se non addirittura peculiari di Sherlock Holmes. Il successo arriva però con il secondo romanzo, Il segno dei quattro, del 1890.
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Il personaggio è decisamente celeberrimo, malgrado lo sforzo e l’abnegazione di Sir Arthur, Sherlock Holmes non si è accontentato di morire col suo autore. Con la cieca immortalità degli oggetti il celebre investigatore continua ancor oggi a manifestarsi nel nostro immaginario tramite un’innumerevole serie di apocrifi che, parodiando, contraffacendo o continuando l’originale, ci accompagnano non più solo nella lettura, ma anche, con formule più o meno valide, attraverso cinema e televisione.
Il personaggio è tanto vivo e reale che molti continuano a scrivere al numero 221 di Baker Street chiedendo all’infallibile detective la soluzione di infiniti ed improbabili enigmi ed ottenendo, da una volenterosa segretaria, prima adibita ad altri incarichi presso l’ufficio che qui ha sede, infinite ed improbabili soluzioni.
Chi scrive, ben poco potrebbe aggiungere sull’influenza artistica e sociale che ha avuto nell’immaginario collettivo dalla sua nascita ai giorni nostri; meno nota, però, è l’influenza che ha avuto sul suo autore che, forse inconsciamente, ha provato per ben due volte a emularlo. Conan Doyle indossa infatti i panni del detective amatoriale prima nel 1906, quando un avvocato inglese di origini indiane, George Edalij, è ingiustamente accusato per delle mutilazioni seriali di animali. L’uomo viene scagionato anche grazie alla pubblica campagna a suo sostegno di Conan Doyle.
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Ancora più clamoroso e più interessante il caso che riguarda un uomo di nome Oscar Slater, a Glasgow, che viene accusato di aver ucciso nel corso di una rapina andata a male una donna di ottantadue anni. Conan Doyle si rende conto per primo dell’inconsistenza delle prove e sostiene a proprie spese la turbolenta vicenda giudiziaria dell’uomo. Anche in questo caso lo scrittore ha ragione: Slater è innocente!
Di Giuseppe Tomei