Gli Aristogatti tra razzismo, patriarcato e fobie
Era l’11 dicembre del 1970 quando negli Stati Uniti Buena Vista Distribution distribuì nelle sale cinematografiche “Gli Aristogatti”. Tratto dalla storia di Tom McGowan e Tom Rowe fu il 20° classico Disney, nonché secondo film animato uscito dopo la morte di Walt Disney.
Il cartone narra la storia di alcuni gatti dell’alta borghesia parigina che si perdono nei meandri della capitale francese per sfuggire al maggiordomo Edgar, geloso del ruolo degli animali nell’eredità della ricca Madame Adelaide Bonfamille.
Nella versione italiana i gatti protagonisti sono Duchessa, Romeo, Bizet, Matisse e Minou. Insieme ad altri “gattacci” di strada della banda di Scat Cat, un gatto americano ispirato al jazzista Louis Armstrong: Shun Gon (gatto siamese cinese), Peppo (gatto italiano), Hit Cat (gatto inglese ispirato a John Lennon) e Billy Boss (gatto russo). Una gang di micetti musicisti che aiuta la mamma dei 3 gattini a scappare dalla follia di Edgar.
Insieme a loro chi non ha cantato “Tutti quanti voglion fare jazz”. Beh sappiate che siete complici di uno dei più grandi atti di razzismo del ‘900. I luoghi comuni, gli stereotipi usati per comporre i disegni e la storia della banda felina sono figli sani del razzismo disneyano. Almeno questo vorrebbero far passare i difensori del politically correct.
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Come osate sorridere vedendo Shun Gon, un gatto siamese cinese con occhi a mandorla che suona il piano e con la classica parlata che sostituisce la L alla R, tipica dei cinesi che si approcciano all’italiano. Così come tutti gli altri randagi rappresenterebbero una macchietta delle altre culture.
Per non parlare delle oche Guendalina e Adelina e dello zio Reginaldo. Pure costui è un bell’esempio di razzismo. Ubriacone tipico inglese, sembrerebbe. Quindi se nella vostra vita, almeno una volta, avete pensato che tutti gli inglesi (o almeno molti) abbiano una fascinazione per l’alcol la colpa è de “Gli Aristogatti”. Poco importa se, per esempio, i tifosi del Newcastle pochi mesi fa, in una Milano bagnata dalla pioggia, completamente ubriachi si lanciavano su la pancia per scivolare sui marciapiedi. Folkloristici, sicuramente. Razzista chi pensa che spesso e volentieri (dati alla mano almeno per quello che concerne le manifestazioni sportive internazionali) in determinate situazioni gli inglesi si comportano così. Ma se lo hai pensato è perché lo hai associato a zio Reginaldo che da bambino ha inculcato nella mente dei bambini l’idea dell’inglese ubriacone.
Così come Romeo, tipico esempio di patriarcato. Lui che dal nulla si avvicina ad una mamma sola con 3 figli. Persa, spaventata. Lui la soggioga mentalmente. Anche qui potremmo intravedere un bel pò di luoghi comuni. La parlata romana e l’atteggiamento spaccone del gatto (nella versione originale è irlandese, perciò anche in quel caso tanto discriminante) sono un inno al razzismo campanilista.
I nati con il codice fiscale H501 si sono sicuramente sentiti umiliati dalle gesta di Romeo “er mejo der Colosseo” (Coloseo, con una sola S, per i puritani del romanesco). Ma soprattutto il suo atteggiamento da maschio alpha, che con la prepotenza si introduce nel nucleo familiare di Duchessa.
La Disney nel 1970 non ha prodotto un classico dell’animazione. Ha creato un prodotto per deviare le giovani menti. Il Ku Klux Klan probabilmente avrà fatto proselitismo a furia di cineforum con “Gli Aristogatti”, spiegando come la banda di Scat Cat sia il più grande esempio di società multirazziale da combattere. Perché, magari, era troppo semplice pensare ai personaggi di tutto il cartone come un’idea di inclusività, come l’inserimento di più culture in un prodotto che aveva il progetto di aprirsi ad un pubblico mondiale e magari far sentire più culture partecipi del film.
Forse è solo fobia. Forse è solo una svolta troppo politicamente corretta. Svolta che però ha risvolti economici interessanti. Infatti il colosso cinematografico sta facendo i conti con perdite milionarie. Come nel caso del film “The Marvels”, costato oltre 300 milioni e che ne ha incassati meno di 200. Non è un singolo caso. Le pellicole dell’azienda statunitense attraggono sempre meno pubblico anche a causa della forzata svolta ideologica che porta a censure e stravolgimenti di trame già conosciute.
La cosiddetta cultura woke sta prendendo palesemente il sopravvento. Da un lato c’è ovviamente il bisogno di dare più spazio a figure, come quelle femminili, negli anni passati poste in secondo piano. Ma dall’altro si corre il rischio di modificare storie senza un senso logico. Solo per rispondere ai canoni del politically correct.
Si passa perciò da un’intenzione di inclusività al risultato misandrico. Non è una difesa dei tanto vituperati privilegi dei maschi. Ma dati alla mano Disney nell’ultimo anno ha perso circa 900 milioni di dollari. Calo di presenze nei parchi a tema, la perdita di abbonati alla piattaforma di streaming e gli insuccessi in sala. Queste le cause maggiori.
Per esempio, quest’anno Disney ha presentato una serie di film che sulla carta erano più che promettenti. Produzioni di altissimo livello come “Ant-Man and the Wasp: Quantumania“, “Guardiani della Galassia Vol. 3“, “Indiana Jones e il Quadrante del Destino“, “Elementary“”, un nuovo film sulla Haunted Mansion” e il remake live-action de “La Sirenetta“.
Tuttavia la maggior parte di questi film ha avuto un rendimento insufficiente nelle sale. Il revival di Indiana Jones ha incassato solo 383 milioni di dollari in tutto il mondo a fronte di un budget di 300 milioni, mentre “Haunted Mansion” ha incassato solo 24,1 milioni di dollari nel weekend di apertura a fronte di un budget di 150 milioni. In particolare la pellicola sull’archeologo è stato un fiasco dovuto in gran parte alla scelta ultra femminista. Indiana Jones viene infatti surclassato e umiliato da Helena Shaw interpretata da Phoebe Mary Waller-Bridge, che portando in rilievo tutti i suoi difetti (veri e presunti) lo costringe al pensionamento.
L’esasperazione di determinate ideologie, evidentemente, colpisce anche le casse.