Archeofame: critica e dissenso nell’antica Roma, la satira come espressione di una civiltà
Satira, da satur, aggettivo latino per abbondanza e pienezza, dicitura che secondo Varrone deriva da lanx satura, piatto misto ricco di primizie da offrire agli Dei
Da qui la definizione che descriveva perfettamente un genere letterario nato appunto miscelando vari stili. Per altri il termine derivava da lex satura, che indicava invece un provvedimento legislativo mirato a riunire articoli misti, cioè materie diverse. Archetipo della letteratura comica e satirica europea sono i componimenti frammentari di un’opera, il Margite, attribuita a Omero, molto famosa nella Grecia arcaica. Tra i frammenti rinvenuti si leggeva: “Molte arti conosceva; però l’una peggio dell’altra. Non aratore, né zappatore lo fecero i Numi, né d’alcun’arte esperto: ché dove provava sbagliava”.
Ditemi voi se sostituendo al verbo provare il verbo parlare non si ottiene la perfetta descrizione dell’utente moderno medio dei social network. La satira politica invece trova il suo precursore in Aristofane, che nelle sue commedie metteva a nudo i difetti e la corruzione nelle poleis del V secolo. Spetta ai romani però il merito di aver trasformato la satira in versi in un vero e proprio genere letterario, tanto che Quintiliano nei I secolo d.C. dirà “Satura quidam tota nostra est “ (Institutio oratoria, X).
Nella letteratura:
Quindi la satira è un componimento, per lo più in versi (l’esametro è quello tipico), che ha come obiettivo quello di criticare e fare oggetto di scherno istituzioni e personaggi del proprio tempo. Nel corso del suo sviluppo muta nelle forme e nei contenuti a seconda dei vari autori susseguitisi dall’epoca repubblicana fino all’età dei Flavi. Ennio (primus auctor) la cui opera frammentaria risulta nel complesso poco polemica e diretta. Lucilio (inventor generis) le cui invettive caustiche e sprezzanti asfalteranno tutti i viziosi, malvagi, corrotti di turno senza differenza alcuna per genere. età o ceto sociale. Quintiliano, che staccherà la sua satira dalla rozza comicità latina, associando i contenuti ironici ad una forma sobria e scorrevole.
Giovenale che a differenza di Orazio rinuncia all’aspetto propositivo e esortativo dell’opera satirica. Non crede che la scrittura letteraria possa modificare il comportamento umano. Per questa sfiducia nell’umanità e per la conseguente convinzione che la realtà è immutabile, Giovenale rinuncia ad esprimere un giudizio correttivo e limita la sua satira, con atteggiamento profondamente pessimista e isterico, ad una denuncia astiosa mossa unicamente dalla sua personale indignazione.
Si rivolse soprattutto contro le donne più e mancipate e gli omosessuali, bollati di infamità, odiati al punto di coinvolgere lo stesso imperatore Adriano, che non era proprio discreto, sfiorando il reato di lesa maestà. Supereroe contro la forza imperiale (semi-cit).
Nel Teatro:
L’inizio della satira a teatro ci viene tramandato da Tito Livio (Ab Urbe Condita, VII, 2) “Tanto in questo quanto nell’anno successivo, durante il consolato di Gaio Sulpicio Petico e Gaio Licinio Stolone, ci fu una pestilenza. Non accadde nulla che sia degno di essere menzionato, se non il fatto che, proprio per placare l’ira degli dei, venne celebrato un lettisternio, il terzo dalla fondazione di Roma. Ma siccome non c’erano iniziative umane né aiuti divini che riuscissero a frenare la violenza dell’epidemia, […] si dice che tra i tanti tentativi fatti per placare l’ira dei celesti vennero anche istituiti degli spettacoli teatrali […]”.
Un lettsternio era un banchetto rituale offerto alle effigi di alcune divinità (triade capitolina e Cerere, in seguito anche Venere e Marte) adagiate su dei letti. Tito Livio prosegue la narrazione di questo insolito fatto specificando però che gli istrioni (attori) chiamati per eseguire questi particolari spettacoli erano stranieri, per la precisione etruschi. Come avevo già specificato nel primo articolo di questa rubrica questi attori si lasciavano andare in danze scomposte e dialoghi rozzi in stile fescennino.
Sempre Tito Livio precisa che inizialmente i giovani romani si dedicavano all’imitazione di questi rustici spettacoli etruschi ma che in seguito gli attori nati a Roma “rappresentavano satire ricche di vari metri, eseguendo melodie scritte ora per l’accompagnamento del flauto e compiendo gesti appropriati”. Alle danze e ai dialoghi vennero aggiunti dei canti e col tempo le rappresentazioni divennero molto complicate favorendo secondo gli studiosi l’avvento a Roma del teatro non improvvisato e di una scuola di musici.
Divenne così standardizzato che, conclude Tito Livio: “la rappresentazione si scostò dallo scherzo spontaneo e dal lazzo gratuito e il teatro si trasformò a poco a poco in una manifestazione artistica, la gioventù abbandonò le recite agli attori di professione e riprese l’abitudine di un tempo scambiando rozze battute in versi. Di qui nacquero quelle che in seguito vennero chiamate farse finali e per lo più aggiunte alle Atellane. Queste ultime […] i giovani romani le tennero per sé e non permisero che fossero contaminate dagli attori professionisti”.
Lo spirito iniziale della satira drammatica (cioè destinata alla rappresentazione) di molto precedente alla satira letteraria, è quindi decisamente rurale e licenzioso, tipico delle rappresentazioni farsesche delle popolazioni italiche più antiche, ad esempio etruschi ed osc e latini. Nelle fasi successive invece, in cui, soprattutto il letteratura, ci si dedicherà esclusivamente alla critica politica e sociale