Archeofame: l’equinozio di primavera e la rinascita della terra: capodanno, maschere e carnevale secondo gli antichi
“Cantando marzo porta le sue piogge, la nebbia squarcia il velo, porta la neve sciolta nelle rogge il riso del disgelo, riempi il bicchiere e con l’inverno butta la penitenza vana”
Così’ cantava Guccini nella sua “Canzone dei Dodici Mesi”. Si sa, marzo è sinonimo di primavera, quel momento dell’anno in cui tutti usciamo dal letargo invernale, in cui torna la voglia di fare e si è già con la mente al riposo estivo. E se nel 2020 il Coronavirus sembra aver prolungato l’inverno, per la maggior parte dei popoli antichi la venuta della primavera rappresentava anche l’inizio del nuovo anno.
I babilonesi
Nella Mesopotamia del sud il nuovo inizio si festeggiava nel mese di Nissanu (a cavallo tra i nostri marzo e aprile) attraverso il rituale dell’Akitu che consisteva in dodici giorni di festeggiamenti e cortei al culmine dei quali la statua del dio Marduk veniva riportata nel tempio. Nel mito il dio sconfigge il “titano” Tiamat, sovvertendo il caos e riportando l’ordine nel mondo.
I greci
In Grecia l’anno nuovo iniziava nel mese di Antesterione (ottavo mese del calendario greco, a cavallo tra febbraio e marzo). I festeggiamenti erano dedicati al dio Dioniso e venivano detti “antiche dionisie” o “antesterie” (dal nome del mese). Per tre giorni si celebrava la rinascita della terra facendo scorrere litri di vino novello in banchetti pubblici (se finivi di bere il tuo vino per primo ne ricevevi altro gratis, bella l’antica grecia, vero?), ci si mascherava e si dava libero sfogo ai più ancestrali istinti umani. Si praticavano orge e ierogamia per favorire la fertilità della terra e delle donne.
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I romani
Per Roma tutto ricominciava nel mese dedicato alla divinità protettrice dell’urbe, Marte. Nei rituali italici più antichi lo stesso dio era chiamato Mavor figlio della grande madre vergine Juana (poi Giunone) che lo aveva generato toccando la terra. Con la stirpe di Romolo gli fu attribuita una forte connotazione guerresca e virile e il dio divenne il Padre di tutti i romani.
“Signore delle armi, dal cui sangue mi ritengo nato e, affinché sia creduto, darò molte prove, da te proclamiamo l’inizio per l’anno Romano: il primo mese sarà dal nome del Padre” (Ovidio, Fasti)
Furono così istituiti gli Equirria una serie di feste dedicate appunto a Marte che Il 14 e 15 marzo venivano dette Mamuralia. La tradizione vuole che si prendesse a bastonate un vecchio coperto di pelli che interpretava Mamurio Veturio (il fabbro di Numa Pompilio che secondo il mito aveva riprodotto l’Ancile, lo scudo di Marte), personificazione dell’anno passato. Ovviamente oltre a festeggiare il Padre, proprio in virtù dell’ equinozio di primavera e la conseguente rinascita della natura, erano previste celebrazioni anche per le “grandi madri”.
“Appena la cupa oscurità della notte si dileguò e il sole dorato apparve, la gente cominciò a riempire le strade per la processione religiosa, quasi come per un trionfo e a me sembrava che non soltanto io fossi contento ma che ogni cosa all’intorno spirasse gioia e alle grezza, che gli animali, la città, l’aria stessa nel suo aspetto sereno, partecipassero di quella letizia. Alla fredda umidità della notte era succeduto, infatti un giorno sereno, pieno di sole, tanto che gli uccelli, rallegrati dal tepore primaverile, s’eran messi dolcemente a cantare festeggiando anch’essi piacevolmente la madre degli astri, la signora delle stagioni, la regina di tutto l’universo” (Apuleio, Metamorfosi XI, 7).
Cosi Apuleio descrive l’inizio della processione sacra durante i festeggiamenti a Roma in onore della dea Iside. Venivano ricordati numerosi episodi del mito di Iside e Osiride e in uno in particolare, Navigium Isidis (la nave di Iside), celebrato durante la prima luna piena dopo l’equinozio di primavera, si poteva osservare di un lungo corteo di personaggi mascherati dietro ad una nave (o carro) per celebrare appunto la resurrezione dalla morte di Osiride e la conseguente rinascita del mondo.
Digerito il precedente spiegone appare certamente chiaro che tutti questi rituali e questi festeggiamenti hanno in comune due elementi fondamentali: c’è sempre un personaggio che riporta l’ordine e la luce nel mondo dopo il caos generato dalla notte; ci si maschera e si fanno cortei al seguito di icone allegoriche.
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Nella cultura cristiana occidentale queste antiche feste che prima erano un’unica celebrazione di rinnovamento, diventano due distinti momenti: il carnevale e la pasqua.
Ora, siamo d’accordo che l’unico modo di festeggiare il ritorno del sole e il rinnovamento del ciclo terrestre sia ubriacarsi e lanciarsi in orge sfrenate tra musica e danze ma perché le maschere? Che significato avevano? Quando arrivano nel teatro? Tra le più antiche maschere antropomorfe conosciute ci sono quelle datate al neolitico preceramico ritrovate in Israele, quelle funerarie dei faraoni egizi, quelle dorate dei guerrieri micenei. Oppure quelle zoomorfe come i mamuthones sardi.
Le maschere sono “magiche” esse permettono a un individuo di nascondere la sua vera identità, di trasformarsi in un animale, di incarnare altro da sé: un mostro, un dio. Permettono di essere parte del caos senza effettivamente esserne responsabili. Servono a nascondersi, dai nemici e dai morti che dopo la lunga notte (l’inverno) tentano di fare ritorno nel mondo dei vivi. Esse rappresentano gli antenati e il modo in cui quei volti vengono tramandati generazione dopo generazione. Aiutano, attraverso la mutazione e il cambiamento dei connotati, il trapasso da un mondo all’altro.
Tolta la maschera, dopo il caos e lo sconvolgimento (lotta tra divinità, ubriachezza e vizi, carnevale) il tempo e l’ordine vengono ricostituiti (nuova nascita o creazione) gli individui si purificano (per esempio dopo la fine del carnevale, che significa carnem-levare, dopo l’ultimo banchetto del martedì grasso, con il mercoledì delle ceneri inizia la quaresima durante la quale non si mangia carne). Nel teatro, la consuetudine di mascherarsi viene introdotta ad Atene intorno al V sec a.C. La funzione “magica” è la stessa. L’attore si trasforma nel personaggio, la persona nell’animale, l’uomo nella donna e così, in men che non si dica, per citare Pirandello, sei “uno, nessuno, centomila”