“Ok, Houston, we’ve had a problem here”: quando l’Apollo 13 tenne il mondo col fiato sospeso
11 aprile 1970: cinquanta anni fa veniva lanciata nello spazio Apollo 13, la terza missione che avrebbe dovuto sbarcare sulla luna dopo Apollo 11 e Apollo 12. L’allunaggio, però, non avvenne mai. James Lovell (comandante), Jack Swigert, Fred Haise: questo l’equipaggio che scrisse una pagina di storia tra le più incredibili mai vissute e raccontate. La loro avventura, riportata anche nel libro “Lost Moon” (realizzato da Jim Lovell e Jeffrey Kluger) ispirò il film Apollo 13, del 1995, diretto da Ron Howard con protagonista Tom Hanks.
Ma andiamo con ordine. Il 6 agosto del 1969 la Nasa svelò i nomi degli astronauti che avrebbero composto l’equipaggio delle missioni spaziali Apollo 13 e Apollo 14. Alan Shepard era il comandante originariamente individuato che però, a causa di un’infezione all’apparato uditivo, fu costretto a rinunciare all’incarico affidatogli. Al suo posto subentrò James Lovell.
Lui, lo spazio, lo conosceva bene avendo partecipato alle missioni Gemini 7, Gemini 12 e Apollo 8 (la prima che entrò nell’orbita lunare, nel dicembre del 1968). Ken Mattingly venne selezionato come pilota del modulo di comando mentre Fred Haise come pilota del modulo lunare.
I designati a mettere piede sulla Luna erano Haise e Lovell
Al destino, si sa, spesso piace giocare con la sorte dei suoi prescelti. Di certo non si può affermare che l’equipaggio dell’Apollo 13 non avesse un conto in sospeso con la fortuna. Non solo Shepard dovette rinunciare alla missione, ma anche Mattingly. Pochi giorni prima del lancio, precisamente l’11 aprile, a seguito di alcune analisi effettuate sugli astronauti si scoprì che Charles Duke (pilota di riserva dell’LM), aveva contratto il morbillo e infettato l’intero equipaggio di riserva. Ma non Mattingly.
A quel punto, come da protocollo sanitario, per evitare che durante la missione potesse contagiare i colleghi, fu deciso che Mattingly rimanesse a casa. Al suo posto Jack Swigert. Il ruolo di Mattingly, però, fu fondamentale nel riportare a casa l’Apollo 13. Dal centro di comando sulla Terra si adoperò moltissimo per simulare gli scenari che in quelle ore avrebbero potuto affrontare gli astronauti, contribuendo quindi a prevederli e ad evitarli.
“Ok, Houston, we’ve had a problem here” – J.Swigert
Cinquantacinque ore dopo il lancio dell’Apollo 13 avvenne l’incidente che ribaltò il destino della missione. Uno dei quattro serbatoi di ossigeno presenti nel modulo di comando esplose per via di una scintilla a bordo. I tre astronauti, distanti 322mila chilometri dalla Terra, furono costretti a trasferirsi nel modulo lunare Acquarius, il lander che in origine avrebbe dovuto essere utilizzato per atterrare sulla Luna.
Quella che avrebbe dovuto essere una missione per la vita, essenziale per la comunità scientifica e per l’umanità intera, divenne ben presto una missione di salvataggio. Disperazione e coraggio, due facce della stessa medaglia. Una corsa contro il tempo, contro le avversità e contro l’imprevedibile per riportare a casa i tre esploratori. Il mezzo ausiliare era tarato per ospitare due persone a bordo, e per non più di due giorni. Fu costretto, invece, a ospitarne tre e per quattro giorni. Furono studiate tutte le operazioni possibili per riportarli in salvo, nel più breve tempo possibile e con il minor margine di rischio. Si optò per l'”effetto catapulta”, meglio conosciuta come “traiettoria di rientro libero”. Operazione mai tentata in precedenza.
Consisteva nel dirigersi sempre verso la Luna, ma senza sbarcarvi, bensì girandovi attorno. Circumnavigando – letteralmente – l’orbita lunare. La motivazione risiedette nel minore spreco di carburante, ossigeno ed energie per la navicella spaziale. Passarono a circa 254 chilometri dalla superficie del satellite.
La sorte dell’Apollo 13 era appesa a un filo
Lovell, Mattingly, Haise, lo sapevano bene. Così come sapevano bene che non tutto sarebbe andato filato liscio e che avrebbero certamente fatto i conti con avversità sconosciute.
Per quanto ci si voglia preparare alle più incredibili eventualità, non si è mai pronti per esperienze simili. Concetto, questo, che venne espresso più e più volte al loro ritorno a casa e negli anni a venire. Da soli dentro un modulo secondario, utilizzato per tutt’altro scopo, con l’ossigeno limitato e scortati dalla Nasa a quattrocentomila chilometri dalla Terra (distanza massima raggiunta da un uomo nello spazio), i tre astronauti riuscirono nell’impresa mirabolante.
17 aprile del 1970, ore 13.07: l’Apollo 13 atterra nelle acque dell’Oceano Pacifico
Il rientro anche fu particolarmente teso. Durante l’ingresso nell’atmosfera la radio andò in blackout, divenne muta per 86 secondi. Un lasso di tempo infinito, sia per Lovell, Swigert e Haise che per chi era al centro di comando Nasa e per il mondo intero. L’equipaggio era salvo. Fu un viaggio entusiasmante, benché adrenalinico e carico di criticità. Un possibile fallimento che si tramutò in uno straordinario successo.