“Annie Ernaux – I miei anni Super 8”: l’intervista al Premio Nobel per la letteratura 2022 e suo figlio David
Il 6 dicembre uscirà al cinema Annie Ernaux – I miei anni Super 8: documentario composto da una serie di video girati dalla scrittrice francese e dalla sua famiglia con una cine-presa super 8, tra il 1972 e il 1981, accompagnati dalla voce narrante della Ernaux.
Il film è stato diretto da Annie Ernaux, da poco insignita del Nobel per la letteratura 2022, e da suo figlio David Ernaux-Briot.
L’INTERVISTA (Adattamento a cura di Sara Paneccasio)
Il materiale di Annie Ernaux – I miei anni Super 8 è estremamente ricco: perché non avete pensato prima a questo tipo di film e cosa vi ha spinti a realizzarlo?
Annie Ernaux: Pensavamo che fosse materiale solo per uso familiare. Dopo la separazione con mio marito all’inizio degli anni ‘80, non abbiamo più guardato quei filmati poiché mostravano la parte della nostra storia in cui vivevamo tutti insieme – io, mio marito e i nostri due figli.
David Ernaux: Mi è venuta voglia di rivederli quando mio figlio maggiore ha chiesto di vedere suo nonno, Philippe Ernaux.
A: Va anche detto che, per via degli sviluppi tecnologici, trovare il modo di guardare dei filmati Super 8 era sempre più difficile: bisognava installare il proiettore, montare lo schermo, ecc. Quelle immagini rappresentavano non solo il passato della nostra famiglia, ma anche quello della tecnologia.
D: Li ho fatti vedere ai miei figli attorno al 2016. Al contempo, ho filmato la proiezione con una telecamera digitale e ho registrato i commenti dei miei parenti: di mia madre, di mio fratello e dei bambini. L’obiettivo era creare un ricordo di famiglia, tramandare ai miei figli le parole della loro nonna. Solo più avanti, quando ho riguardato i filmati digitali, ho pensato che potessero interessare a tutti: sono visibili l’arredamento, gli abiti e gli ideali – grazie ai viaggi in Cile e Albania – del tempo.
A: Io non ci avevo proprio pensato. Solo raramente ho proiettato un paio di bobine di me e i bambini per alcuni amici intimi, ma mai i filmati dei nostri viaggi. Credevo che non interessassero a nessuno, come è spesso il caso.
Quando avete deciso di trasformare il materiale in un film da distribuire, avete riguardato con cura
tutte le bobine?
A: Nel 2000, quando seppi che si potevano convertire i filmati Super 8 in videocassette, ne portai alcuni alla FNAC per poterli riguardare più facilmente. Il risultato fu deludente, i colori erano diversi. Riguardai quelle immagini insipide che erano state montate una dopo l’altra solo una o due volte. Ma quando David mi ha chiesto di scrivere un estratto per il film che aveva in mente, le ho riguardate attentamente.
D: Alcune bobine erano state digitalizzate, quindi sono bastate un paio di sessioni per vedere tutto.
Cos’avete provato rivedendo i filmati?
A: D’impatto ho sentito la sensazione del tempo. Ero quella ragazza inconsapevole della sua giovinezza. I bambini dei filmati ora sono adulti. Molti parenti non ci sono più: mia madre, i miei suoceri, mia cognata. E mio marito, il regista. Poi mi sono resa conto che quelle immagini risalgono a un periodo importantissimo della mia vita: l’avvio della mia carriera di scrittrice, la pubblicazione del mio primo libro e la fine inevitabile del mio matrimonio.
D: Non ho provato nulla di particolare, solo un senso di familiarità. Conoscevo quelle immagini, fanno parte di me e mi accompagnano da molto tempo. Assurdamente, le emozioni, le ho provate durante il montaggio, quando ho dovuto riorganizzare le scene e scavare a fondo nei sentimenti. È stato distanziandomi da me stesso e trattando i filmati come materiale estraneo a me che mi sono commosso.
Nel film alle immagini si sovrappone un testo scritto da te, Annie, e che tu stessa leggi come voce fuori campo. Per te, il film è stata un’estensione naturale del tuo lavoro o un’esperienza totalmente diversa?
A: Il film è l’estensione della traccia dell’individuo e della famiglia nella società e nella storia, il che è consustanziale con la mia scrittura. C’è un’affinità tra il libro Gli anni e il film Annie Ernaux – I miei anni Super 8. Ma l’esperienza è stata molto diversa. Non sono partita dalla memoria e non ho dovuto inventarmi una forma come per Gli anni. Le immagini filmate hanno funto da binari per la memoria e hanno fatto riaffiorare ricordi personali, così come il loro contesto politico e sociale. Ha quindi preso forma uno sguardo sociologico sulla nostra classe sociale e sui gloriosi anni ‘30.
Quelle immagini sono uno spaccato, forse superficiale e illusorio, della felicità familiare. Ma i testi si distanziano da esse. Questa tensione, questa dialettica tra suono e immagine, era l’essenza del progetto?
A: Per me è stato il modo naturale di procedere.
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D: I testi redatti da mia madre non mi hanno sorpreso! La conosco, ho letto i suoi libri, so bene come vede il mondo e io lo vedo allo stesso modo. Per me il dilemma era più coordinare testo e immagini. Il montatore, Clément Pinteaux, e io ci abbiamo messo un po’ di tempo per farlo. Dovevamo costruire una struttura divisa tra momenti in cui il testo corrobora le immagini, le rafforza e le spiega, e momenti in cui le riflessioni di mia madre rivelano una verità invisibile che si cela nei filmati e prende alla sprovvista lo spettatore. Il contrasto tra immagini di famiglia che tutti conosciamo e la violenza che certi estratti sprigionano è ben riuscito.
A: Non c’era bisogno di scrivere un commento descrittivo. Le immagini appartengono alla grammatica dei filmati di famiglia, delle vacanze, delle feste, degli anniversari e dei filmati di viaggio. Dovevo interrogarle, integrarle nella storia individuale così come in quella collettiva. E dovevo esprimere ciò che noi – come chiunque altro – volevamo catturare inconsciamente con quei filmati, ovvero l’eternità, ovviamente.
Alcune delle immagini sono lo stereotipo della famiglia ideale. La tua voce in voice-over seziona questi cliché e si pone domande sulla famiglia, sul matrimonio, le convenzioni sociali e il ruolo della donna. E, di fatti, fu tuo marito a filmare il 95% delle immagini.
A: Esatto, aveva il monopolio sulla cinepresa. E io non mi opposi mai, come se fosse parte integrante della divisione tra generi all’interno della nostra relazione. Quando la usavo io, era per filmare lui! Non so se l’avete notato, ma è pessimo a posare.
D: Le sequenze con mio padre mi affascinano, forse perché sono rare, ma forse anche per via dello scarto tra la precisione delle sue immagini e il siparietto che mette in scena davanti alla telecamera. Sapeva che il suono non veniva registrato, eppure continuava a parlare! È assurdo! Ora lo vedo come un uomo che rappresenta quel momento storico, proprio come la telecamera usata per catturare quei ricordi. Non ritoccò mai le immagini, non fece mai operazioni di montaggio, tranne una volta, quando unì delle bobine da tre minuti per formarne una più lunga da 20. Ma non è come scrivere un film, ovviamente.
A: Detto ciò, al tempo io non mi resi conto di quanto fosse bravo mio marito dietro la telecamera.
D: Mio padre sceglieva con cura le inquadrature. Guardando tutto il girato, si nota l’intenzione dietro ognuna di esse. Ovvio, non ci sono tagli, non ha girato la stessa scena da diverse angolazioni, ma tutte le scene sono composte con grande coerenza.
Nel film viene riproposto uno dei tuoi temi ricorrenti, la defezione di classe.
A: Quando comprammo quella cinepresa, mia madre viveva con noi da ormai due anni. La sua presenza mi ricordava ogni giorno l’esistenza della classe operaia tra le mura della casa di stampo borghese intellettuale che avevo costruito con mio marito. Durante un viaggio in Cile ai tempi dell’Unità Popolare di Allende, mi resi conto di essere una “disertrice di classe”, anche se allora non
l’avremmo ancora chiamata così. Il bisogno di puntare i riflettori sul mio distaccamento dal mondo della mia infanzia mi mangiava da dentro. Ed è ciò che le immagini del film raccontano in segreto, la nascita del mio libro Gli armadi vuoti.
D: Io non sono un disertore di classe, ma sono sensibile ai problemi di classe. Dentro di me conservo le mie origini di classe operaia. Ho ereditato certi modi di essere, come il parlare a voce alta o il fare battute banali, e so perfettamente che non fanno parte dei comportamenti sociali appropriati. Ma sono fatto così, è parte di come sono stato cresciuto. Ho l’impressione di vivere tra due mondi, quello della classe operaia e quello della borghesia intellettuale. Questa divisione degli esseri umani basata sulle buone maniere, non la trovo naturale.
Un altro aspetto che colpisce del film sono i viaggi, specie in Paesi difficili da visitare come l’Unione Sovietica o l’Albania, che aveva chiuso i confini.
A: È stato merito del caso. Nel 1975 ci trasferimmo da Annecy a Cergy e organizzammo le vacanze in ritardo. Erano rimasti liberi dei posti per un viaggio organizzato in Albania, una destinazione che ci sembrava interessante, che si poteva visitare solo con dei viaggi organizzati, dato che i confini erano stati chiusi, e di cui non sapevamo niente. Il regime di Enver Hoxha era fortemente antisovietico e pro-Cina. Il gruppo era piccolo, eravamo in otto e non venivamo mai lasciati da soli, una guida del regime ci supervisionava tutto il tempo. La cosa che più di tutte spaventava il nostro accompagnatore era che venissimo in contatto con la popolazione locale. Noi rappresentavamo “l’Occidente marcio”. Alcuni bambini lanciarono delle pietre alla turista più anziana perché in spiaggia aveva oltrepassato il confine stabilito per noi. Fu molto strano, sembrava di stare in Corea del Nord o nella Cina di Mao. Al tempo, con la nascita delle Guide Routard e dei viaggi organizzati, le avventure turistiche erano diventate più democratiche.
Anche il vostro viaggio in Marocco fu caratterizzato dal distanziamento dalla popolazione locale, ma per motivi ben diversi.
A: Eravamo in un villaggio turistico a M’Diq coi bambini, era una specie di bolla artificiale. Ma non credo ci fosse nemmeno il desiderio di entrare in contatto con loro, né da parte nostra né da parte dei marocchini. Eravamo intrappolati in un sistema turistico codificato alla lettera. Nel film racconto di quanto mi risultò noiosa quella vacanza in Marocco.
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D: Hai scritto: “Tre settimane di noia pacifica, interrotte solamente dalle gite a Chefchaouen e ai palazzi reali…”
A: In Marocco mi sentii una buona madre! Il tipo di villaggio in cui stavamo dava libertà ai genitori e amici e intrattenimento ai bambini. Era comodo per tutti e permetteva di viaggiare all’estero con i figli.
Il viaggio in Unione Sovietica ti ha segnata?
A: Facemmo un weekend lungo con Intourist (n.d.r. l’agenzia di viaggio sovietica). Anche lì, i ritmi erano serrati: ci mostrarono la Piazza Rossa, il mausoleo di Lenin, ecc. Come nella canzone “Nathalie” di Gilbert Bécaud.
D: Nel testo abbinato si rimanda all’immaginario russo, che era molto forte, così come lo è ora.
A: La Russia era sempre stata questa grande nazione al di là della Cortina di ferro. Ma anche il Paese di Tolstoj e di Puškin. La sua presenza nella mia immaginazione era forte. Era ancora in atto la Guerra fredda tra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Ogni giorno sulla stampa veniva citata la Pravda. E a 31 anni riuscii a vedere coi miei occhi ciò che fino ad allora avevo solo immaginato. Mosca era triste, con i marciapiedi dissestati, le periferie piene di file di edifici in cui, la sera, si scorgevano lampadine che penzolavano dal soffitto, i negozi vuoti…
È sorprendente che siate riusciti a portare a casa delle immagini dell’Unione Sovietica e dell’Albania. Specie di quest’ultima – al tempo averne era quasi uno scoop!
A: L’Albania è ricca di antichi tesori straordinari e riuscimmo a riprenderli. La bellezza delle rovine mi affascinò molto, così come il contrasto tra i resti dell’Illiria e le ferite rozze di un regime violento e brutale.
Si può dire che il viaggio nel Cile di Allende fu molto più allegro e stimolante?
A: Oh, sì, soprattutto perché il Paese non aveva chiuso i confini!
D: Ricordo che da adolescente avevo il poster di Allende in camera.
A: Allende, la sinistra non comunista al potere. Andammo con un viaggio organizzato da Le Nouvel Observateur a scopo politico e turistico. Partecipammo a un’udienza di un’ora con Allende a La Moneda.
Annie Ernaux – I miei anni Super 8 è un film politico, intimo, ma anche una bella opera cinematografica, se non altro per la grana delle immagini.
D: È la pellicola Super 8: lascia molto più spazio all’immaginazione rispetto alle immagini chiare e dettagliate del digitale.
A: Per me, il vantaggio è che sono immagini mute, quindi non c’è nessuno che mi contraddice [ride]. Ma riesco a collocare precisamente ogni dettaglio di quelle immagini: ricordo le circostanze, il mio stato d’animo, i rapporti familiari. Avrei anche potuto aggiungere una colonna sonora con le canzoni che ascoltavamo, ma abbiamo scartato l’ipotesi perché sarebbe risultata ridondante.
D: Le parole di mia madre e le immagini erano abbastanza rappresentative dell’epoca, non servivano anche le canzoni.
Il film corona quella che potremmo chiamare ‘”l’Era cinematografica di Annie Ernaux”, dopo L’amante russo di Danielle Arbid, La scelta di Anne – L’Événement di Audrey Diwan e J’ai aimé vivre là di Régis Sauder. Com’è per te?
A: [Ride] È tutto merito del caso! Ma quell’era finirà con questo film, credo. È iniziata nel 2008 con L’autre di Pierre Trividic e Patrick Mario Bernard, adattato dal mio libro L’Occupation. Un gran bel film, forse un po’ troppo sperimentale per il successo che ha avuto.
Qual era il vostro rapporto col cinema in quanto spettatori?
A: Non sono una cinefila, semplicemente perché in molti periodi della mia vita non riuscivo ad andare al cinema. Quando studiavo, ci andavo spesso e quello era il periodo della Nouvelle vague, di Truffaut, Godard, Resnais. Dopo aver visto L’anno scorso a Marienbad, ricordo di aver pensato che dovevo scrivere così, con una voce insistente e dei frammenti di ricordi. Ancora oggi preferisco i film che mi sorprendono in un modo o nell’altro, che sia per il soggetto o per la forma, e i documentari.
D: Se dovessi scegliere il film che mi ha segnato di più e che ha fatto nascere in me il desiderio del cinema, sarebbe Ombre (Shadows) di John Cassavetes. Fu come una rivelazione scoprire che un film può essere un’esperienza esistenziale che trasforma la nostra comprensione e il nostro rapporto sensoriale col mondo. Un altro film importante per me, e forse più coerente con i miei studi scientifici del tempo – studiavo nella facoltà di Jussieu, vicino al Museo nazionale di storia naturale – è Un animal, des animaux di Nicolas Philibert, sulla ristrutturazione della Galleria dell’evoluzione.
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