Anco Marzio, il re di Roma tra Aventino, Gianicolo e Ostia
Il quarto re di Roma, Anco Marzio, ha nel nome la nascita dell’Urbe. Nipote di Numa Pompilio era di origine sabina, divenendo l’ultimo sovrano con questi legami geografici. Apparteneva alla Gens Marcia, una delle cento gentes originarie citate da Tito Livio. Il nome di questa famiglia deriva dalla divinità sabina Mavors, che fu latinizzato in Mars, cioè Marte. Il dio che diede i natali al fondatore di Roma: Romolo.
E proprio Marte è legato al mese di Marzo. Nel calendario romano romuleo l’anno si apriva proprio con il mese che prendeva il nome dal dio della guerra. Martius era il periodo della fertilità, della rinascita dopo i periodi invernali. I Romani in questo periodo riprendevano anche a far battaglie. Il corpo e lo spirito ritrovavano nuova linfa.
E se la divinità romana era legata a fenomeni atmosferici come i fulmini e le tempeste nonché alla fertilità, il Mavors delle civiltà pre romane era nato grazie a Juana (poi Giunone) e al suo semplice tocco della terra. Un legame indissolubile tra guerra e terra. Tra la difesa del suolo e la rinascita dopo un periodo difficile. Che sia esso il freddo inverno, o una guerra.
E se Tullio Ostilio aveva in qualche modo rotto il rapporto con la religione, Anco Marzio ne ristabilì le cerimonie istituite proprio da Numa Pompilio. Sotto di lui gli dei venivano consultati prima di una guerra, per non incorrere in quanto successe al suo predecessore.
Fu fautore di una politica di pace armata per dissuadere i nemici da un attacco. Una politica militare basata sul non attaccare, ma nel caso in cui fosse stato necessario prendere le armi, i Romani sarebbero stati gli ultimi ad abbassarle.
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Sotto il suo regno il territorio di Roma andò a comprendere l‘Aventino e il Gianicolo, con la conquista di quest’ultimo che indispettì, leggenda vuole, il dio Giano. Costui infatti protestò sostenendo che il Gianicolo, allora terra di nessuno, era consacrato a lui. E lì vivevano in pace fauni e ninfe. Il re non volle sentire ragioni e rinchiuse il dio nel suo tempio, che veniva aperto solo in tempo di guerra.
Questa non arrivò a tardare, tanto che Anco Marzio si presentò ben presto fuori il santuario. I Latini, popolo confinante e rozzo, decisero infatti di attaccare i romani proprio sul colle conteso con il dio. La guerra portò però alla conquista delle città latine di Politorio, Tellene e Ficana. Nonché un gran numero di vinti deportati a Roma per popolare soprattutto l’Aventino.
Il re fece poi costruire il Pons Sublicius, il più antico ponte della futura capitale d’Italia. Ma questo gran numero di genti che furono portate all’interno delle mura portò al sovrano, per la prima volta nella storia della città, dei problemi di carattere interno, causati dalla differenza culturale. Il disordine cresceva e Anco Marzio, a cui venivano chieste leggi più severe, decise di costruire il primo carcere. Dal latino carcerem, recinto, come quello usato per trattenere i cavalli prima della corsa. L’idea fu quello di costruirne uno per gli uomini, per essere trattenuti prima dell’ultima corsa. Quella verso la morte. Nacque così il Carcere Mamertino, un edificio a due piani detto anche “tulliano”, in quanto costruito accanto ad un tullus, che voleva dire “pozzo”, “sorgente”.
Questo non servì granché a limitare la delinquenza. Per distrarre l’opinione pubblica il re decise di estendere la giurisdizione di Roma fino al mar Tirreno. Dove il fiume si immetteva nel mare fondò un porto che fu chiamato Ostium, da cui Ostia, che il latino significa appunto “foce”. Il destino di Roma piano piano cominciava a compiersi. L’Urbe continuava ad espandersi.
Leggendaria è anche la sua morte. La storiografia romana, con in testa Tito Livio, parla della venuta di un “burino”, un etrusco dal nome Lucumone. Costui si narra che arrivò a Roma in carrozza. Passando proprio dal Gianicolo, l’occupazione del quale secondo Giano avrebbe provocato gli Etruschi. Le storie filo romane raccontano di alcuni prodigi della moglie del facoltoso greco di origine. Un’aquila reale sembra che gli rubò un copricapo, fece un volo verso il sole per poi riscendere e riposare l’oggetto sulla testa di Lucumone. Un chiaro segnale divino.
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Egli ebbe poi modo di conoscere Anco Marzio, il quale, sempre leggenda vuole, gli cambiò in nome in Lucio Tarquinio, in quanto il suo nome originario non si sarebbe adattato ad un futuro cittadino romano. Ma è nel nome del prossimo re di Roma che si può scorgere qualcosa di più vero. La radice “Tarch” in etrusco significava “dominio”. Probabilmente Lucumone forse non venne nell’Urbe in carrozza ma alla testa di un esercito. Non a caso superò il Gianicolo, il bastione romano più avanzato sulla riva vejente. E l’aquila, che tirava il carro di Giove, era anche il simbolo della gloria militare.
Dopo 24 anni di regno il nipote di Numa Pompilio interruppe il sogno egemonico di Romolo “ut mea Roma, caput orbis terrarum sit”. Cioè che Roma diventasse la capitale del mondo. Iniziava infatti il periodo dei re degli Etruschi.
Finiva invece il regno di Anco Marzio, che nel suo nome aveva un legame forte con Marte, e quindi con Romolo. Perciò con il destino che voleva Roma caput mundi. Contribuì sicuramente ad un’espansione della città, a riallacciare la vita quotidiana con la religione. Come Marzo era il mese della rinascita della natura, la sua politica contribuì ad una rinascita del popolo romano, il quale però, soprattutto a causa dei rivolgimenti interni, cadde sotto il dominio straniero.