L’inno alla vita di Alberto Di Lenardo: la mostra che racchiude 60 anni di carriera in 154 scatti
Per alcuni, la sua riscoperta post mortem sarebbe paragonabile a quella della grande Vivian Maier, il cui talento venne rivelato al mondo soltanto dopo la sua scomparsa e grazie al casuale rinvenimento di uno scatolone di foto da parte di un collezionista privato. Se la messa a confronto, anche per una questione semplicemente stilistica, può sembrare azzardata, nondimeno intorno alla figura di Alberto Di Lenardo, venuto a mancare nel 2018, si è già creato un certo interesse grazie alla casa editrice londinese Mack, che con il libro An Attic full of Trains del 2020 lo ha fatto uscire dal completo anonimato in cui era rimasto avvolto nel corso di tutta la sua esistenza.
Ora, grazie alla bella monografica ospitata a Palazzo WeGil (Largo Ascianghi 5, zona Trastevere, Roma) fino all’8 maggio e curata da sua nipote Carlotta Di Lonardo, abbiamo la possibilità di conoscere un “magnifico dilettante” dell’obiettivo che potrebbe presto trasformarsi nella next big thing della nostra fotografia.
Leggi anche: Roma a Teatro: gli appuntamenti dal 1 al 6 marzo
Il percorso, costituito da 154 opere tratte dallo sterminato archivio (si parla di oltre 12.000 scatti) ereditato dalla curatrice e articolato in uno spettro temporale di quasi 60 anni, ci racconta di un uomo completamente innamorato del suo obiettivo e, ancor prima, della vita: infatti, sia che si tratti di ritratti di famiglia o di estranei, sia che ci si trovi di fronte a scene di vita quotidiana o a paesaggi italiani e stranieri, risulta sempre evidente una certa cifra sentimentale prima ancora che artistica da parte di un uomo che fece della sua capacità di osservare il mondo e le persone e del desiderio di un racconto poetico e sereno della realtà la sua ragione di esistere, oltre che di fotografare.
Inoltre, non può sfuggire all’occhio dello spettatore la tendenza a immortalare i suoi soggetti servendosi costantemente di cornici e finestrature a delineare l’immagine, quasi che ciò che viene rappresentato debba suggerire un istante ben preciso e inequivocabile nel flusso del tempo del quale non ci si può e non ci si deve dimenticare.
Leggi anche: “Rugantino”, il bullo romanesco torna al Sistina
E questa personalissima peculiarità di “visione” è riscontrabile in tutte le tre sezioni dell’Expo, dove a farla da padrone è anche l’uso molto personale del colore e delle sfumature, che trova la sua sistematica applicazione tanto nelle immagini di uomini e donne quanto in quelle dedicate ai parchi divertimento o alle vedute (anche aeree) dei vari paesaggi che ammirò nel corso della sua parabola terrena, durante la quale fu anche un appassionato viaggiatore in varie zone del mondo.
Con la sua fedele Pentax tra le mani (che utilizzava senza l’ausilio del cavalletto), Di Lenardo sfruttò la maggior parte del tempo libero che gli concedeva il suo lavoro da imprenditore nel campo del vino, per esternare felicità e stupore di fronte a ciò che di più bello e prezioso il suo “destino” aveva da offrirgli, originando un linguaggio figurativo intenso e delicato in grado di affascinare e di mettere di buon umore lo spettatore e di raccontare anche un’epoca che, pur essendo cronologicamente molto prossima a noi, sembra oggi, in questi giorni di velocità estrema e di artificiosa apparenza vomitata dai social più “visuali”, tristemente e irrimediabilmente lontana.
Leggi anche: La mostra di Margaret Bourke White a Roma è semplicemente imperdibile