“A change is gonna come”: la speranza di una società diversa nel capolavoro di Sam Cooke
Gli anni Sessanta hanno rappresentato la decade spartiacque per l’affermazione dei diritti civili degli afroamericani. Citare i tanti che hanno speso la propria vita in favore di questa causa è affare complicato ma un po’ meno, invece, è ricordarne alcuni tra i più fieri e devoti alfieri: Martin Luther King e Malcolm X, su tutti. Le loro parole, i loro gesti, le loro attività hanno ispirato centinaia di migliaia di persone, facendo da apripista a movimenti atti a rivendicare eguaglianza e autonomia per la gente di colore.
In quegli anni il paese dello Zio Sam faticava a scrollarsi di dosso la vergogna della schiavitù e molti retaggi erano ancora lungi dal tramontare in diversi stati degli States dove perdurava la disparità di trattamento tra bianchi e neri. Ma l’aspirazione all’autodeterminazione da parte della popolazione afroamericana divenne più pressante e difficile da tenere a bada. Per alcuni il vento di cambiamento iniziò a soffiare nel 1955 quando a Montgomery, capitale dell’Alabama, stato tradizionalmente conservatore e restio a qualsiasi tentativo di emancipazione per la gente di colore, Rosa Parks si rifiutò di cedere il suo posto a un uomo bianco rimasto in piedi.
La legge di allora prevedeva che sui mezzi pubblici (divisi in tre settori: bianchi, neri e misti, cioè utilizzabili da entrambi – qui si accomodò la donna) qualora i cittadini bianchi non avessero trovato posti a sedere, gli occupanti di colore si sarebbero dovuti alzare per cedere loro il posto. Il primo dicembre di quell’anno Rosa Parks non si alzò e rimase ferma, seduta, contravvenendo alle disposizioni in vigore. Fu arrestata e incarcerata con l’accusa di aver violato le norme sulla segregazione. La reazione della cittadinanza afroamericana non si fece attendere e, oltre al boicottaggio degli autobus, scattò la presa di coscienza che qualcosa sarebbe dovuto cambiare. Fu una scintilla. Quei giorni anche Martin Luther King decise che avrebbe dovuto prendere l’iniziativa e così fece. La Parks, dal canto suo, se la cavò con una multa di 14 dollari e un soprannome: “Mother of the Civil Rights Movement”.
Sam Cooke, del cambiamento, fu uno degli artefici, eppure non seppe mai di aver contribuito alla causa: morì, in circostanze mai del tutto chiarite, prima di poterlo scoprire. Nato a Clarksdale, nel Mississippi, il 22 gennaio del 1931, è da molti considerato il padre della soul music e certamente tra gli artisti di colore più influenti di tutti i tempi. Elegante nel portamento, carismatico e affascinante, dotato di una voce d’angelo capace di cantare melodie di rara dolcezza, raggiunse il successo con la hit “You send me” (1957, Keen Records) che rimase per più di due mesi al numero uno della classifica R&B di Billboard e per tre settimane nella prima posizione della classifica pop. Una lunga gavetta, la sua, che lo portò ben presto a farsi conoscere negli ambienti musicali del sud degli Stati Uniti, quelli che, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, erano particolarmente restii ad accettare che i tempi fossero maturi per l’emancipazione della gente di colore.
Non fu un cantante impegnato, per lo meno non nell’accezione che viene riservata ai cantautori, eppure fu autore di alcuni brani che bene descrivevano lo stato d’animo e le speranze degli afroamericani. Nel 1959 scrisse “Chain gang” (che venne pubblicato l’anno dopo per RCA Records) ispirato – leggenda vuole – da una storia vera. Le chain gang erano quelle comitive di prigionieri (gang) che, costretti ai lavori forzati, venivano tenuti insieme da lunghe catene (chain) alle caviglie, ai polsi o alla vita, rendendogli impossibile la facoltà di fuggire ma anche la libertà nei movimenti. Cooke ne avrebbe incrociata una durante un viaggio mentre era in tour e l’episodio dovrebbe essersi verificato nella metà degli anni Cinquanta, essendo che furono abolite nel 1955.
“That’s the sound of the men / Working on the chain gang / That’s the sound of the men / Working on the chain gang”, cantava nella prima parte della canzone, aggiungendo poi: “Can’t you hear them singing, mmm huh hah / I’m going home one of these days huh hah / I’m going home, see my woman huh hah / Whom I love so dear but meanwhile / I gotta work right here huh hah“.
Il suono delle catene degli uomini che lavorano e che desiderano tornare a casa dalla propria amata. Il suono della schiavitù e dell’umiliazione, della sofferenza e della privazione. Il suono del dolore della gente di colore cui era riservato questo trattamento. Il cantante lo portò in musica e su quelle note scrisse il testo di uno dei suoi brani più conosciuti e celebrati. L’episodio che Sam Cooke cantò e che lo portò a scrivere il pezzo più importante della sua discografica, anche senza mai ammettere di essersi a esso riferito e ispirato, fu quello che avvenne nell’ottobre del 1963 Shreveport, in Louisiana.
Era in città per un concerto e scelse di fermarsi a dormire all’Holiday Inn con la moglie, il fratello e il manager. Ma volere non è potere e anche se in quel momento era all’apice della sua carriera, restava pur sempre un uomo di colore. Il personale della hall disse lui di non avere stanze disponibili, nonostante le insistenze e le richieste di parlare col direttore: anche se non affermato esplicitamente, gli fu negata la possibilità di soggiornare lì per via del colore della sua pelle.
Così, a bordo della sua auto, si allontanò per dirigersi verso un altro hotel dove ad aspettarlo, però, c’era la polizia che lo arrestò con lo sciocco pretesto del disturbo della quiete pubblica e lo condusse in caserma. Il fratello, Charles, pagò la cauzione e la sera poté tenere il concerto previsto, nonostante fosse stato diramato un allarme bomba. L’auditorium comunale venne controllato da cima a fondo ma non venne trovato niente. Fu tra le esperienze più brutte e, umanamente parlando, devastanti nella vita di Sam. Un evento che lo colpì nell’anima e dal quale trasse ispirazione per scrivere e comporre “A change is gonne come“.
Per alcuni la canzone fu mirata a raccogliere il testimone di “Blowin’ in the Wind” di Bob Dylan, brano di un artista che Sam Cooke stimava profondamente, ma la realtà è che ciò che avvenne quella notte in Louisiana fu la scintilla che fece scattare nel cantante una reazione alla profonda frustrazione dell’essere protagonista di un episodio vergognoso. Volle raccontare il dolore e l’umiliazione sua e della sua gente, quella che parte dell’America non desiderava e considerava ospite non gradito. Una melodia struggente, se la si ascolta con la giusta attenzione, così come traspare dalle parole che rivelano sofferenza e privazione, ma anche amore e speranza.
Sognava il cambiamento, sapeva che prima o poi sarebbe avvenuto, lo desiderava più di ogni altra cosa. Il successo, le auto di lusso, i ristoranti chic e le platee colme di fans non potevano essere paragonabili alla libertà che auspicava per la popolazione afroamericana. La sua voce era più importante e incisiva di tante altre, perché Sam Cooke, perfettamente consapevole di essere un megafono per tanti, pur non parlando mai apertamente di razzismo a esso si riferiva. Non gli urlò contro e non lo citò testualmente, lo descrisse con la classe che la sua arte riuscì a elaborare. Un grido silenzioso, che non poté mai cantare negli anni a venire. La morte lo raggiunse prima di comprendere quanto importante fosse quel pezzo che divenne anche il suo epitaffio.
Barack Obama, alla vigilia delle elezioni che lo avrebbero portato a diventare il 44esimo presidente degli Stati Uniti d’America, il primo afroamericano della storia, durante un suo comizio a Chicago citò testualmente: “It’s been a long time coming, but tonight, change has come to America”, ossia “c’è voluto molto tempo, ma stasera, in America, è arrivato il cambiamento”. Le parole sono prese in prestito da “A change is gonna come” di Sam Cooke. Un esempio di come il cambiamento sia arrivato, nonostante la scia di sangue e infamia che la segregazione razziale si sia portata dietro. Negli ultimi anni il movimento Black Leaves Matter, rinvigorito – purtroppo – dall’uccisione di George Floyd, ha ridestato l’attenzione su quanto ci sia ancora da fare prima che il cambiamento, questa volta si, possa essere definitivo.
Sessant’anni fa Sam Cooke cantava al mondo la sua speranza con un brano destinato ad assurgere il ruolo di inno per milioni di persone. Il nativo del Mississippi è stato, al pari di altri illustri personaggi, tra coloro che hanno cambiato la storia. Perché le parole, a volte, sono più incisive di molte azioni.
A change is gonna come
“I was born by the river
in a little tent, and o
just like that river
I’ve been running ever since
It’s been a long long time coming, but I know
a change is gonna come, oh yes it will
It’s been too hard living
but I’m afraid to die
‘cause I don’t know what’s up there
beyond the sky
It’s been a long time coming, but I know
a change is gonna come, oh yes it will
(I go to the movie and I go downtown
somebody keep tellin me
don’t hang around)
It’s been a long time coming, but I know
a change is gonna come, oh yes it will
Then I go to my brother
and I say brother help me please
but he wind up knocking me
back down on my knees
There have been times that I thought
I couldn’t last for long
but now I think I’m able to carry on
It’s been a long time, but I know
a change is gonna come, oh yes it will”
Traduzione
“Sono nato sul fiume in una piccola tenda
oh, proprio quel fiume che da allora sto percorrendo
ed è passato tanto di quel tempo
ma so che ci sarà un cambiamento, sì che ci sarà
La vita è stata durissima
ma ho paura di morire
perché non so che c’è lassù oltre il cielo
Ed è passato tanto, tanto di quel tempo
ma so che ci sarà un cambiamento, sì che ci sarà
Vado al cinema e qualche volta in centro,
qualcuno mi dice di non stare a gironzolare
Ed è passato tanto, tanto di quel tempo
ma so che ci sarà un cambiamento, sì che ci sarà
Poi vado da mio fratello
e gli dico: Fratello, aiutami, ti prego
ma lui finisce soltanto
per mettermi ancor più in ginocchio
In alcuni momenti ho pensato
che non ce l’avrei fatta a lungo
ma ora penso di poter resistere
ed è passato tanto, ma tanto di quel tempo
ma so che ci sarà un cambiamento, sì che ci sarà”