Otto aprile 1977: esplode la rivoluzione punk dei Clash
Politica, disagio sociale, lotta di classe e rifiuto di un sistema preconfezionato ed esclusivista: sono questi i temi trattati dai Clash nell’omonimo album d’esordio, pubblicato l’8 aprile del 1977 per la CBS Records. e prodotto da Mickey Foote e Bill Price. Un debutto in linea con gli standard punk dell’epoca, sulla scia tracciata dai Ramones oltre oceano e, soprattutto, dai Sex Pistols in Inghilterra. Band, quest’ultima, in grado di influenzare pesantemente la decisione di Joe Strummer, leader dei Clash, di imbracciare uno strumento musicale.
Il gruppo inglese, sebbene fresco di prima stampa, dimostrò da subito la chiara volontà di non lasciarsi ingabbiare in un sound grezzo ma chiuso, aggressivo ma limitante, anticonformista ma confinato in schemi compositivi troppo condizionanti per un songwriting ancora tutto esplorare. L’attitudine punk dei Clash si contrappose agli stessi stili e canoni che il genere musicale pretendeva e richiedeva, dimostrando una visione artistica più ampia che, in seguito, si manifesterà con contaminazioni reggae, ska, hard rock e rockabilly.
Il gruppo andò quindi oltre quel limite acque sicure entro i cui confini la scena del tempo si muoveva con agilità. In “The Clash” l’ortodossia punk incontrava la rivoluzione stilistica dei suoi autori, ben decisi a esplorare nuovi orizzonti. Ricetta, questa, che fece la fortuna di Joe Strummer, Paul Simonon, Mick Jones e Terry Chimes, uscito dalla line up prima della promozione del pattern e prima dell’iconica fotografia apparsa sulla copertina del disco. Uno scatto in bianco e nero su sfondo verde marcio, con i tre in piedi su una scalinata appoggiati contro un muro nel quartiere londinese di Camden. Se la foto è un simbolo del movimento punk dell’epoca, il retrocopertina lo è ancora di più poiché ritrae gli scontri che avvennero nel quartiere di Notting Hill tra polizia (i famosi bobbies) e manifestanti della comunità giamaicana. In strada, al loro fianco, scesero anche Simonon e Strummer che, da quegli eventi, trassero ispirazione per il brano “White Riot“.
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Due anni dopo la pubblicazione, il disco uscì anche sul mercato americano, ma il brano “I’m so Bored with the U.S.A.” venne censurato poiché considerato un attacco diretta al sistema politico a stelle e strisce in quegli anni governato dal presidente repubblicano Gerald Ford e poi dal democratico Jimmy Carter. Erano lontani gli anni di Woodstock e dei figli di fiori, dei movimenti pacifisti e dell’amore incondizionato: la rabbia verso una società classista, sempre più filo capitalista e dove le disuguaglianze sociali stavano esplodendo in maniera spesso violenta rappresentarono il cuore e l’anima del debutto discografico dei Clash che irruppero sul mercato discografico con una personalità dirompente, capace di entusiasmare un pubblico trasversale e, per questo, differente rispetto a quello tipicamente underground e punk. Quattordici brani e poco più di trentacinque minuti di musica furono il loro biglietto da visita, il loro ingresso nell’Olimpo dei grandi.
Un sound diretto, scevro da fronzoli, essenziale, supportato da testi colmi di messaggi sociali e politici: “The Clash” è stato una folgore per il movimento punk di fine anni Settanta, altresì in grado di gettare le basi per il successo di una band che, sebbene sia rimasta attiva per un decennio, ha radicalmente cambiato il volto della musica rock, influenzando un’infinità di artisti a venire e riscrivendo i canoni stilistici di un sound, quello punk, al tempo eccessivamente, ma volutamente, autoreferenziale.
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