L’America del 2020 vista dagli occhi dei Bon Jovi: la recensione dell’album
Recensione a cura di Alessandro Appetiti
“2020” è il titolo del nuovo album dei Bon Jovi, pensato come un approccio ironico in vista delle elezioni presidenziali in America, ha poi assunto un senso più ampio con l’evolversi della pandemia. Nella copertina del 15esimo album della band del New Jersey, Jon Bon Jovi appare assorto nei suoi pensieri (in una posa che richiama una vecchia foto di JFK) e nelle canzoni che compongono il disco esprime il suo punto di vista sulla libera vendita delle armi da fuoco in America, sul movimento Black Lives Matter, sul disturbo post traumatico dei veterani di guerra, oltre che sulle conseguenze del lockdown.
Annunciato dal frontman come un disco non politico, ma caratterizzato da forti tematiche sociali, “non aspettatevi un altro Slippery When Wet.. non voglio farlo“, 2020 dà un segnale di discontinuità rispetto al passato. Lo si evince nella scelta di includere solo 10 tracce (rispetto al formato album da 12 tracce presente nelle produzioni dal 2000 in poi) dedicando più spazio alle singole canzoni che hanno modo di esprimere quasi sempre arrangiamenti interessanti, con qualche spunto di rilievo.
Nota positiva è l’alleggerimento nella produzione dei brani, sempre ad opera del duo JBJ/Shanks, che rende l’ascolto più piacevole rispetto ai due dischi precedenti. Il “muro del suono gommoso” caratteristico della produzione di Shanks è presente solo nella opening del disco e primo singolo, Limitless, che appare come una stanca ripetizione di una formula rodata per i brani up-tempo della compagine.
Il resto del disco presenta un mix di brani che spaziano dal country contemporaneo, come “Do What You Can” (uno dei due brani scritti durante la pandemia ed inseriti successivamente nella tracklist), alle ballad acustiche e pezzi rock che ricordano lo stile di Destination Anywhere (album solita di JBJ del 1997).
Sui brani acustici aleggia forte lo spirito del figlio prediletto del New Jersey, Bruce Springsteen (provate ad ascoltare “American Reckoning” e successivamente “21 Shots” del Boss) e molte sono le similitudini tra nuovi pezzi e vecchie composizioni della band, ad esempio “Blood in The Water” e “Dry County” da Keep the Faith, o la strofa di “Let it Rain” e quella di “Blood on Blood” (New Jersey). Finalmente trova un po’ di spazio anche Phil X, chitarrista chiamato a sostituire il defezionario Richie Sambora. Il suo lavoro è apprezzabile nei pochi, ma piacevoli, assoli presenti nel disco, come in “Beautiful Drug”.
Menzione a parte merita “Brothers in Arms” (non quella dei Dire Straits!) che riporta la band sulle coordinate rock di fine anni ’90. Un brano così era assente da tempo. Tirando le somme “2020” è un disco che verrà acclamato solo da quella fetta di fan americani che piange ettolitri di lacrime guardando This is us sul divano.
È sicuramente un buon disco, forse il migliore nella produzione recente della band, ma lascia la stessa sensazione che si ha dopo aver rincontrato il vecchio amico del liceo che da 15 anni racconta gli stessi aneddoti dei tempi andati, iniziando però a dimenticare i particolari che rendevano quelle storie così speciali.