Songs From The Woods: un viaggio nell’universo bucolico dei Jethro Tull
Nel 1976, il manager dei Jethro Tull Jo Lustig decise di consegnare a Ian Anderson un libro: “Folklore, Myths and Legends of Britain” di Russell Ash. Così le antiche leggende legate al folklore britannico, fatte di miti, superstizioni, storie di bizzarre creature magiche e festività pagane, presero vita in “Songs From The Woods”. Fu il decimo album in studio dei Jethro Tull, nonché pietra fondante della trilogia folk rock alla quale seguirono “Heavy Horses” (1978) e “Stormwatch” (1979). Futile asserire che quel libro fu creativamente fatale allo stile della band che passò da un rock progressivo a delle musiche intrise di medievalismo britannico e atmosfere celtiche.
Oltre a produrre, cantare, suonare il flauto, la chitarra, le tastiere, il mandolino e il liuto, Anderson scrisse i testi di ogni singola canzone dell’album i cui arrangiamenti, radicalmente ispirati al libro di storie fantastiche della Gran Bretagna precristiana, furono reinterpretati dal resto del gruppo. Anderson partì dunque dalla lettura di queste storie di antica magia pagana per sviluppare una serie di canzoni dal clima romanticamente fiabesco con un messaggio ambientalista di fondo.
Forse la natura non è così gentile come ci fa comodo credere. E’ matrigna o benevola a seconda di chi la vive.
In copertina, lo sguardo smarrito del cacciatore (Ian Anderson) immerso nelle calde tonalità autunnali di una una foresta sperduta in chissà quale zona della Gran Bretagna. Dell’acqua bolle su un fuoco (sacro simbolo druido). Il cappello del cacciatore è beffardamente posizionato su un albero reciso sotto al quale giacciono dei volatili tramortiti. Un lupo nero, di cattivo auspicio, fa capolino alle sue spalle. Sembrerebbe la trama di un libro di Stephen King, ma è solo il paratesto della narrazione storico-musicale messa a punto dai Jethro Tull.
“Songs from the wood will make you feel better.” Così inizia il viaggio nella foresta incantata dei Jethro Tull fatta di folletti, riti pagani, sacrifici e danze promiscue.
“Let me show how the garden grows”, lascia che ti mostri come cresce rigoglioso il bosco in cui abiti. Non tentare di distruggere ciò che ti ha creato e rispetta il mondo naturale da cui tu stesso provieni, sembra raccontare il testo.
“Have you seen Jack In The Green? With his long tail hanging down. He sits quietly under every tree in the folds of his velvet gown. He drinks from the empty acorn cup the dew that dawn sweetly bestows. And taps his cane upon the ground signals the snowdrops it’s time to grow.”
“Jack In The Green” è una figura mitologica tratta dal folklore britannico messo a punto in età rinascimentale. Essa è legata ad un rito di fertilità e rigenerazione della foresta, divorata dalle gelate invernali. E’ metafora stessa della natura che lentamente muore e si rigenera all’infinito.
“Hunting Girl” si rifà ad antiche leggende gaeliche/celtiche secondo cui le donne, prima della cristianizzazione, godevano della più totale disinibizione sessuale, rendendosi predatrici accanite dei propri uomini. L’eco è quella di un amore che risponde ai più elementari istinti carnali degli uomini i quali, evidentemente, non percepivano ancora il bisogno di castigarsi col cilicio per aver consumato dei pensieri impuri sulla Vergine.
“Velvet Green” è una delle canzoni più complesse quanto emblematiche dell’album. Concepita strutturalmente come una pièce teatrale fatta di tempi e intervalli finalizzati ad aumentare la suspence negli spettatori, essa rievoca un amore pastorale tipico dell’immaginario bucolico virgiliano. La trama ruota attorno all’offerta d’amore di un giovane uomo che chiede un appuntamento alla donna desiderata, richiamando apertamente gli scenari poetici dell’amor cortese.
“Pibroach”, dal gaelico piòbaireached, un genere di musica triste, cupa e funerea, tratta di un amore non corrisposto di un cavaliere errante alla spasmodica ricerca della propria amata in mezzo alla foresta. Il suo è un sentimento irrequieto e insalubre che si spezzerà una volta scoperta la relazione della donna con un altro uomo.
“Fire At Midnight” è il brano conclusivo del vagabondare bucolico dei Jethro Tull. “Build a little fire this midnight. It’s good to be back home with you.” E’ bello tornare a casa da te, dopo questo lungo ed estenuante viaggio. Alla fine il fuoco inebrierà i nostri sensi e placherà le nostre preoccupazioni. Ancora una volta, il testo richiama molteplici immaginari leggendari e interpretazioni “romantiche”.