Stray Bop: il duo Bardamù fonde il jazz e l’hip hop e dà vita ad un nuovo linguaggio musicale
Roll the Dice e And we will dance the love sono i due nuovi singoli del duo jazz/ hip pop di origini calabresi Bardamù, in rotazione radiofonica da oggi 6 dicembre. Ginaski Wop e Alfonso Tramontana da circa vent’anni sono “cittadini del mondo” e creano la loro musica facendosi influenzare da ogni luogo nel quale vivono. Dal 2000 hanno vissuto prima a Cuba, poi a Barcellona e Madrid. Oggi si dividono tra l’Italia, Roma in particolare, e gli Stati Uniti, dove sono un duo apprezzatissimo nei jazz club più importanti di Manhattan.
Insieme scrivono musica e testi di tutti i loro brani e li producono e registrano nel loro studio mobile per le vie della città. Stray Bop (EGEA MUSIC) non è solo il titolo del loro ultimo disco, ma è anche il genere musicale che producono da anni che vede il jazz e l’hip hop andare a braccetto in un linguaggio fino ad ora poco sperimentato.
Come nasce lo Stray Bop?
Noi sperimentiamo questo linguaggio dai primi anni ’90, proveniamo dal jazz, ma abbiamo anche iniziato ad ascoltare musica hip hop sia italiana sia americana e lì abbiamo concettualizzato l’idea che si trattava di una naturale evoluzione del jazz, certo potevano cambiare alcune atmosfere però in realtà la matrice culturale e concettuale era la stessa. Quindi abbiamo iniziato ad interpretare la cultura hip hop alla stessa maniera di quella jazz, utilizzando molti strumenti dal vivo, tentando di calarla in una struttura jazz vera e propria e abbiamo alla fine avuto modo di constatare che in molti contesti, soprattutto all’estero, piaceva. In sostanza questo nostro album “Stray Bop”, che unisce la cultura di strada, l’essenza girovaga con il movimento BeBop anni’40, è la summa del lavoro di questi anni.
Questo disco può essere considerato “la voce” di un nuovo “genere” sperimentale?
Sono d’accordo nel chiamarlo “nuovo genere” perché quando si parla di nuovo è sempre rischioso però possiamo definirlo tale perché molti in passato hanno tentato di approcciarsi sia nel mondo jazz sia nel mondo hip hop all’inverso. Tentativi ve ne sono stati, ma si trattava sempre di dischi jazz con un condimento hip hop. Quello che noi facciamo invece viene realmente composto e suonato dal vivo come una jazz band e l’hip pop si inserisce non con una semplice metrica ma vi si costruisce intorno un universo musicale.
Vi sentite dei veri “cittadini del mondo”…
Anche se sembra un po’ amaro dirlo, ma una vera e propria casa non l’abbiamo ancora trovata. Probabilmente è una condizione fondamentale del randagismo. Abbiamo vissuto a Cuba, a Barcellona, Madrid. Sono 11 anni che siamo a Roma e più di un anno che facciamo avanti e indietro con Brooklyn. I luoghi che visitiamo e abitiamo ci arricchiscono molto e ci permettono di misurarci con noi stessi, conoscere nuove culture, affrontare solitudini. Viaggiando si può rispondere anche ai diversi interrogativi che ci poniamo, ad esempio.
Siete un duo di fratelli, di origine calabrese. Come nasce l’idea di suonare insieme?
(Ginaski) Tra i due Alfonso è il più grande e già da ragazzino suonava il piano e ascoltava musica jazz in un’età in cui i coetanei di solito ascoltano musica diversa. Probabilmente aveva sottomano solo me che suonavo la batteria, quindi abbiamo in un certo senso unito le nostre solitudini ed è nato questo progetto.
Cosa vi aspettate da questo disco?
In realtà nulla in particolare, da un punto di vista commerciale. Quello che il disco doveva darci lo ha già fatto nel momento della sua nascita. Per tutta la vita avremo questa creatura che abbiamo concepito lentamente. E’ chiaro che se dovesse avere anche successo la cosa ci renderebbe ancora più felici.
Tra le vostre particolarità vi è quella di aver registrato il disco in uno studio mobile..
Stando sempre in giro risulta complicato fermarsi in un studio di registrazione fisso. Poi ci siamo accorti che non ci piace dipendere troppo dagli studi di incisione e quindi abbiamo scelto questa alternativa. Portiamo in valigia tranquillamente le nostre apparecchiature, registriamo dove capita, a casa nostra o a casa di altri artisti, dove vogliamo. Lo studio mobile risulta molto comodo e sposa a pieno la nostra essenza e idea di randagismo. Terminato tutto abbiamo consegnato il materiale agli Abbey Road Studios che hanno arricchito sicuramente quello che è accaduto in pre- produzione. La cosa bella di questo modo di fare musica è il fatto di poterla costruire tassello per tassello.
Registrate a Brooklyn, girate il mondo con il vostro genere sperimentale, avete molto seguito all’estero, ma l’Italia? Pensate che in Italia questa musica possa avere un riscontro o un’accoglienza?
All’estero abbiamo avuto molti feedback positivi, siamo sempre molto contenti quando chi ascolta il nostro disco ne resta colpito. In Italia è difficile abbattere alcune barriere o avere a che fare con delle agenzie booking. C’è attualmente un blocco culturale che rende tutto molto abbastanza difficile e che non permette l’effettiva fruizione ad esempio di un album o di un genere come il nostro. All’estero abbiamo suonato in tanti Festival di jazz, In Italia nemmeno uno. Suonammo una volta in un club di Roma 2 anni fa. A quel punto ci si chiede se quello che si sta realizzando, questo jazz contemporaneo, possa essere un prodotto buono e ci siamo risposti che probabilmente lo è. Il problema non è nostro che facciamo questo genere di musica ma è un problema locale visto che in altri paesi, invece, una cassa di risonanza ce l’ha. Probabilmente fra trent’anni avremo modo di capire se quello che si sta facendo oggi con la cultura italiana sia un prodotto positivo, qualora non dovesse essere così vuol dire che questa generazione ha fallito.
Vi sentite più jazz o hip hop?
In realtà l’hip pop e il jazz condividono la matrice culturale da cui provengono. Il jazz nasce nei ghetti, in zone dove la gente aveva delle particolari problematiche sociali e non solo. Dietro la cultura jazz c’è un mondo che permise anche alle persone di esprimersi e anche di superare determinati problemi. Il linguaggio jazz portò ad una vera e propria rivoluzione sociale. Quando il jazz divenne mainstream allo stesso tempo stava nascendo un’ulteriore subcultura che partiva dalle stesse premesse del jazz: l’hip pop. Cambiano gli strumenti ma i presupposti erano e sono gli stessi. Quindi non si può parlare di differenze. Ci sentiamo jazz ovviamente, è per questo che possiamo fare anche rap.
Molte le collaborazioni presenti nel vostro disco, gli artisti che vi hanno affiancato come hanno accolto questo invito?
Gli artisti che hanno collaborato con noi sono stati molto felici di far parte di questo progetto. Hanno lavorato a titolo amichevole perché altrimenti avremmo dovuto avere alle spalle una produzione che in verità non abbiamo. Riusciamo a raggiungere maggiormente ragazzi che ascoltano rap e quindi sono molto aperti a nuove contaminazioni. È difficile invece avere l’attenzione di appassionati di puro jazz, a differenza degli artisti rap che sono invece pronti ad accogliere nuovi giochi musicali, chiamiamole “trasgressioni musicali”.
Foto Carlos Colòn