Speciale Billie Holiday: il dolore della donna che rese grande l’artista

Billie Holiday è, senza alcun timore di smentita, tra le figure più emblematiche e iconiche della musica jazz e blues, ma la sua vita, segnata da abusi, razzismo e tragedie personali, è un racconto che trascende il mero ambito artistico per elevarsi a simbolo di resilienza e libertà.
La sua voce, inconfondibile per l’intensità emotiva e la profondità del dolore che ha caratterizzato l’età dell’innocenza di una bambina diventata donna troppo in fretta, ha contribuito a definire il suo stile e, al tempo stesso, rinnovare i canoni stilistici dei generi sopra citati. Ma, dietro la straordinaria carriera che ha portato avanti, culminata in un successo internazionale straordinario, si celano una lunga serie sofferenze che hanno segnato profondamente la sua esistenza.
Billie Holiday nacque il 7 aprile 1915 a Philadelphia, con il nome di Eleanora Fagan. Cresciuta in un ambiente difficile in un contesto sociale fortemente gravato da disparità e violenze, la sua infanzia fu segnata da pesanti e reiterati abusi. Sua madre, Sarah, era una donna che lottava per mantenere la famiglia, e il padre, Clarence Holiday, era spesso assente, un trombettista che viaggiava per lavoro.
Figlia d’arte, fin da piccola subì abusi psicologici, fisici e sessuali, traumi che non l’abbandoneranno mai più e ne segneranno per sempre l’esistenza. Un dramma interiore portato sulle spalle come il più gravoso dei pesi dai quali non poter sfuggire. Mamma Sarah la mandò a vivere in una casa di accoglienza, dove venne abusata da uno degli altri residenti, ennesima esperienza che la segnerà profondamente.
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E così, quello che doveva e poteva essere un tentativo di sottrarla a un destino crudele si rivelò per essere un passo falso. Questa lunga serie di episodi ebbe un impatto devastante sulla salute mentale e sul comportamento della donna. Billie, bambina prima e ragazza poi in cerca di un modo per esprimere il suo dolore e le sue emozioni, trovò nella musica la sua unica via di fuga, una valvola di sfogo e un senso stesso alla sua esistenza in terra. Tuttavia, i fantasmi del passato non l’abbandonarono mai.
Quel dolore affrontato e represso, tenuto a bada ma mai realmente sconfitto, non tardò a manifestarsi in tutta la sua violenza: spesso si rifugiò nella dipendenza da alcol e droghe, richiami assordanti e vigliacchi tramite i quali tentare di sopportare il peso di un’infanzia traumatica.
Billie Holiday dovette affrontare anche il razzismo che permeava la società americana del suo tempo, lacerata da violenze e disparità di tutti i generi. Cresciuta in un’epoca in cui la segregazione razziale era ancora una realtà tangibile, la cantante dovette lottare con la discriminazione quotidiana, vivendo in prima persona umiliazioni e affronti, insulti e soprusi. Non solo subì pregiudizi da parte dei bianchi e dell’alta borghesia della società civile, ma anche dell’industria musicale che, invece, avrebbe dovuto abbattere le distanze tra le classi sociali.
La sua voce potente e unica, che avrebbe dovuto essere celebrata all’unisono, veniva invece spesso sminuita o ignorata, semplicemente a causa del colore della sua pelle. Accadde a lei e, come sappiamo, a una lunga serie di artisti di quegli anni.
Uno dei momenti più emblematici della sua carriera fu l’incisione della canzone Strange Fruit (1939), un brano che denunciava il linciaggio dei neri negli Stati Uniti. La canzone, scritta da Abel Meeropol, un insegnante e attivista ebreo, è un atto di denuncia contro la brutalità razziale. La Holiday la eseguiva con una tale intensità emotiva che ogni parola, ogni nota, divenne un grido di protesta. Ma la canzone non fu ben accolta da tutti; anzi, divenne un bersaglio di critiche. Un atto di coraggio in un’America ancora stretta nella morsa del razzismo.
Nonostante le difficoltà, Billie Holiday iniziò a farsi un nome nella scena musicale di New York. Pochi anni prima, più precisamente nel 1933, fu scoperta dal produttore John Hammond che la portò alla corte di Artie Shaw, uno dei più celebri direttori d’orchestra swing e jazz dell’epoca. Fu sotto la sua guida che Billie Holiday iniziò a perfezionare il suo stile unico. La sua voce, capace di evocare malinconia, dolore e passione, fu presto destinata a diventare tra le più potenti e identitarie della jazz newyorkese e statunitense, più in generale.
Nel 1939, la sua carriera raggiunse un punto di svolta con l’uscita di Strange Fruit, ma fu il suo lavoro con il leggendario trombettista Lester Young a consolidare la sua fama. La collaborazione tra i due diede vita ad alcune delle performance più memorabili del jazz, creando una fusione perfetta tra la voce di Holiday e la musica di Young. La sua capacità di dare un significato emotivo profondo a ogni frase musicale la rese una delle interpreti più rispettate e amate di tutti i tempi.
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Tra i suoi brani più celebri troviamo anche “What a Little Moonlight Can Do” (1935), composizione che esemplifica la sua capacità di evocare sensualità e umorismo attraverso la musica; “God Bless the Child” (1941), canzone che racconta la lotta per la sopravvivenza, che scrisse insieme a Arthur Herzog Jr; “Lady Sings the Blues” (1941), pezzo tramite il quale riuscì a raccontare il suo percorso di vita, un viaggio doloroso e spesso difficile, ma pur sempre vissuto da grande artista quale era; “Don’t Explain” (1944), un altro esempio di come Billie Holiday potesse tradurre il dolore in arte, un brano struggente che riflette il lato più personale e vulnerabile della sua vita; “The Man I Love” (1941), un classico che mostra la sua abilità nell’esprimere emozioni complesse e conflittuali, creando una miscela di speranza e disillusione.
La vita di Billie Holiday, però, non fu lunga: morì il 17 luglio 1959, a soli quarantaquattro anni, a causa delle complicazioni legate all’uso di droghe e al suo stato di salute compromesso da anni di abusi. La sua morte prematura segnò la fine di una delle carriere più straordinarie della musica, una star che non sapevo di esserlo poiché piegata dalle sofferenze e dai traumi di un’esistenza sempre vissuta sull’orlo del baratro. Billie Holiday non solo ha scritto la storia del jazz, ma ha anche fornito una voce a chi non ne aveva una, parlando di razzismo, sofferenza e speranza in un’America che stava cambiando. A farlo, assieme a lei, poche altre donne in una scena musicale ancora dominata dagli uomini.