“Scellerate”, la forza al femminile nell’Abruzzo che cambia [L’intervista]

Donne e natura. Sguardo femminile e territorio. Scintille e chiome scapigliate. C’è questo e tanto altro in “Scellerate” (Radici Edizioni) il personale itinerario di Antonella Finucci fatto di boschi, valli, mari e montagne e segnato dall’intimo rapporto tra ogni elemento del paesaggio e le protagoniste che hanno contribuito, o contribuiscono oggi, al racconto corale dell’Abruzzo.
Artiste e scrittrici, traduttrici del Premio Nobel per la Letteratura ma anche geologhe militari e guide escursionistiche, sante e donne pastore. Le scellerate di questo libro sono donne che hanno seguito la loro natura più intima senza lasciarsi condizionare, evitando percorsi prestabiliti e aspettative sociali imposte. Dal bosco della dea Angizia al dialetto dei romanzi di Donatella Di Pietrantonio, passando per l’esilio di Natalia Ginzburg, le poesie di Amelia Rosselli e per decine di altre figure femminili che si sono trovate per lunghi o brevi periodi a vivere l’Abruzzo, una coinvolgente narrazione capace di attraversare i confini porosi del genere e quelli spesso invisibili del paesaggio.
Un titolo che dice già molto e che sembra ribaltare il significato tradizionale del termine scellerate. “L’intento”, spiega l’autrice, “è esattamente quello del ribaltamento, con un pizzico di provocazione: lo scelus latino, infatti, richiama etimologicamente la malvagità, il delitto, l’animo impuro che è capace di compiere nefandezze. Le scellerate che sono qui raccontate, invece, non compirebbero mai nessun abominio però considerano delittuoso uccidere se stesse, vivere meno intensamente per non ferire qualcuno, annientare la propria personalità, ridursi di statura”.
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Antonella Finucci è nata ad Avezzano, in provincia dell’Aquila, nel 1985. Docente e giornalista, è membro dell’Aps L’Aquila Volta la Carta. È curatrice del blog Geostorie.it, che gestisce dal 2018 in collaborazione con i suoi alunni. È stata direttrice responsabile del trimestrale Autismo & Co. Ha pubblicato, nel 2025, il volume Scellerate (Radici).

L’INTERVISTA
Un titolo che ha dunque influenza nella narrazione. Scellerate iperbolicamente sta a indicare l’espressione della consapevolezza di quelle donne che hanno seguito la loro natura più intima, spesso connessa anche alla natura che le circonda, non confermando necessariamente percorsi prestabiliti o aspettative sociali; donne che avevano bisogno di vivere il loro essere questo o quello senza essere additate e che hanno affermato e legittimato il loro modo di essere. Perché l’appiattimento a un unico modello è quel che davvero non può andar bene per tutte. Per tutti, anche per gli uomini chiaramente. Non amo quel che divide uomini e donne: i confini a ben guardare non sono mai tali, sono porosi, modellabili, e lo sono ancor di più quando si tratta di genere. Se togli gli uomini o se togli le donne, ogni storia è incompleta, non puoi realmente capirla. Eppure le donne sono cancellate, nel migliore dei casi solo simbolicamente. E dunque credo sia importante recuperare una narrazione, a più livelli, che tenga conto non solo del punto di vista femminile ma anche soprattutto delle sfaccettature di quel femminile, dei diversi modi di essere donna. Nessuno di questi può essere considerato scellerato solo perché scomodo o meno addomesticabile e dunque meno compreso e accettato.
Nel libro parla di artiste, scrittrici, geologhe, guide escursionistiche e pastore. C’è una storia in particolare che l’ha colpita di più?
Mi risulta difficile scegliere una storia tra le altre, perché ognuna ha fatto vibrare in me delle corde che hanno dato dei suoni, se poi sono state selezionate per finire tra queste pagine. Anzi, a dire la verità è stato complicato restringere il campo: mi sono imbattuta in un’infinità di voci di donne che mi hanno intrigata, che avevano davvero tanto da raccontarmi, da dirmi, da insegnarmi. Le storie che ho scelto sono le mie scintille, quelle che mi hanno colpita perché le ho sentite forse più vicine alla mia indole, affini. Tanto le donne viventi, quanto quelle che non ci sono più: il mio focus nella scelta, come si evince dal sottotitolo, è stato lo spazio e non il tempo e questo mi ha permesso di ondeggiare lungo i secoli con maggiore libertà di selezione ma anche di riflettere su quanto sia importante a volte anche accendere un faro sul presente, riconoscerne le belle personalità e valorizzarle qui e ora. È quel che ho tentato di fare fondendo le storie di ieri e di oggi, anzi, qualche volta anche andando al di fuori del tempo, come nel caso di Angizia che apre il testo: da marsicana mi piaceva richiamare questa figura magica, archetipica, ancestrale, troppo spesso dimenticata eppure piena di fascino, e ho voluto farlo con una captatio benevolentiae, quasi richiamando l’antica invocazione alle muse dei poemi classici.
Il suo libro esplora il legame tra donne e paesaggio abruzzese. Come descriverebbe questa connessione? E in che modo la natura diventa un elemento di emancipazione?
Gli elementi che caratterizzano un paesaggio sono solitamente anche espressione di una concezione del mondo, di determinati valori, di un modo di abitare. Noi esseri umani incidiamo lo spazio e lo modelliamo, ma allo stesso tempo il paesaggio crea e plasma noi, il nostro pensiero, il nostro modus vivendi e il nostro linguaggio. Questo è anche un processo simbolico, nel momento in cui l’essere umano interpreta il territorio, decide chi può fare cosa e dove. Nel corso del tempo le donne sono state confinate quasi esclusivamente in uno spazio domestico e quelle che avevano a che fare con la natura erano non di rado considerate pazze, streghe o maghe conoscitrici di erbe, al massimo contadine. Anche la città, se volessimo guardarla come specchio della condizione femminile nella storia, non si distacca da questo discorso: le donne non hanno quasi mai potuto scegliere il loro spazio di vita ad eccezione di quello casalingo, così nessun luogo urbano apparteneva loro davvero. Dunque, poiché tutti i luoghi fisici – più o meno antropizzati – sono fondamentali se vogliamo davvero parlare di cambiamento sociale profondo, e anche di emancipazione in certi casi, le donne raccontate in Scellerate hanno quasi tutte agito non solo dentro quel territorio, diventando chi sono o sono state, ma proprio per quel territorio: Tripolina, ad esempio, da ballerina crea una scuola di danza per permettere alle altre donne di avere un luogo in cui condividere una passione; Stefania Evandro propone un teatro che esalta la drammaturgia dei luoghi, puntando su spettacoli immersivi pensati per essere realizzati all’interno dei luoghi che raccontano, spesso anche in aperta natura o attraverso dei veri e propri trekking. O ancora la Garzarella, geologa e paleontologa, ci ricorda che le donne sono perfettamente in grado di muoversi dentro ogni tipo di paesaggio, che il territorio non è proibitivo per nessuno che sia allenato e in grado di studiarlo, viverlo o apprezzarlo. Dunque in questo libro la connessione donne e natura non viene enfatizzata, né descritta come più poetica o necessariamente diversa da quella che può stabilire un uomo con quella stessa natura: semplicemente è indagata, descritta, raccontata. E proprio, tra gli altri aspetti, nel suo essere elemento di emancipazione, di affermazione, di appartenenza.
Nel libro cita autrici come Donatella Di Pietrantonio, Natalia Ginzburg e Amelia Rosselli. Quale influenza ha avuto la letteratura nel suo approccio al racconto del territorio?
La letteratura è il mio mondo, la mia scelta, è ciò che ho studiato e studio. È ciò che mi eleva quando ho bisogno d’aria. È il cielo, è la bellezza, è la possibilità di riconoscermi nell’altro, di sapere che l’umanità intera ha la mia stessa anima. È per questo che all’interno del libro ho inserito diverse voci del mondo letterario, focalizzandomi sul loro rapporto con l’Abruzzo, ma ho anche volutamente raccontato tutte le storie su un piano a metà tra la saggistica e la narrativa. Ho cercato di dare contenuti importanti, raccontandoli in maniera fresca, non troppo pesante. L’appendice poi, alla fine del libro, è addirittura puramente narrativa: si compone di tre racconti in cui la geografia diventa simbolica e meno concreta. Mi è piaciuto fondere non solo due linguaggi sul piano formale, quindi, ma anche due mondi, quello scientifico e quello letterario, sul piano contenutistico, continuando su un solco tracciato dall’odierno processo di riscoperta che va inscritto nel fenomeno della cartographical turn, com’è stata definita questa specie di svolta legata alla spazialità in ambito letterario.
Le donne di “Scellerate” scelgono la libertà nonostante le pressioni sociali. Quali sono, secondo lei, le sfide più grandi che devono affrontare oggi le donne che vogliono vivere secondo le proprie idee?
Credo fermamente che ci sia una premessa da fare: in ogni ambito e in ogni contesto la sfida più grande, per ognuno di noi, è quella con noi stessi. E anche in questo caso, l’autopercezione, l’autoderminazione e l’autostima passano per forza di cose anche attraverso le pressioni sociali e i messaggi culturali che, quando sono sbagliati, stantii, usurati, o peggio quando sono dei veri e propri pregiudizi, possono influenzare negativamente l’evoluzione personale dell’individuo, portandolo a dubitare delle sue stesse capacità. Questo alle donne è accaduto, e ancora accade, più che all’uomo: purtroppo gli stereotipi legati al genere continuano ad esistere anche laddove fortunatamente la discriminazione inizia a diminuire. O almeno è diventata oggetto di riflessione. Ma c’è un piano ulteriore da indagare: in una società in cui le donne devono fronteggiare questioni notevoli come la disparità nel trattamento economico, le barriere nell’accesso a posizioni di leadership nelle aziende o di rappresentanza femminile ai vertici di istituzioni di svariato tipo, i pareri non richiesti sui ruoli che dovrebbero ricoprire e sui tempi da rispettare, ritengo che la sfida più complessa sia non solo legata alla spinta e alla voglia di lottare per tutte le problematiche appena elencate e per l’autoaffermazione delle proprie libere e insindacabili scelte, ma anche paradossalmente quella di non separarsi dagli uomini, di continuare a lottare per lo stesso obiettivo e la stessa idea. Soprattutto in questo momento. Ed è qui che l’educazione e l’istruzione fanno la differenza: è vitale educare tutti quanti all’uguaglianza, alla gentilezza, alla non violenza, alla riflessione, al rispetto. È quel che può realmente cambiare le cose. È sicuramente facile dirlo dalla posizione privilegiata di donna che vive in una parte di mondo in cui si può esprimere liberamente un’opinione, in cui si può scrivere un libro, ci si può sedere su una cattedra per guardare meglio, ogni giorno, centinaia di occhi di ragazze e ragazzi. Ma è proprio da quella posizione che la percezione delle cose si raffina, perché non solo puoi ripassare ogni giorno il passato ma, se hai naso e un pizzico di fortuna, puoi anche un po’ intravedere il futuro. Ma soprattutto capisci nettamente che quegli occhi rispecchiano quel che noi adulti trasmettiamo loro, a scuola, a casa, in società.
L’Abruzzo è protagonista del libro tanto quanto le donne di cui racconta. Qual è, secondo lei, l’aspetto più affascinante e meno conosciuto della regione che ha voluto mettere in luce?
È proprio così, l’Abruzzo coi suoi paesaggi è un attore sulla scena, protagonista tanto quanto le storie delle donne che lo abitano o lo hanno scelto come terra d’elezione. Per quanto mi riguarda, amo la possibilità di poter passare, nel raggio di pochi km, dalla natura selvaggia e verdeggiante dei boschi dell’interno alla luce azzurra del mare Adriatico, passando per il bianco delle gole di San Martino che svettano al cielo: grazie a questa varietà paesaggistica notevole ho sempre la sensazione di poter diventare qualcos’altro, qualcun altro, ogni volta che voglio. E penso sia una ricchezza non da poco. Ho raccontato di endemismi, di isoglosse, di laghi scomparsi, di boschi sacri, eppure non ho potuto fare a meno di soffermarmi sulla resistenza ostinata di chi ama questa terra e decide di tornarci e restarci per non farla morire, di chi cerca di intercettare le mancanze e colmarle. Forse è proprio questa contraddizione in termini, questa assurdità che dentro una bellezza così luminosa ci siano zone d’ombra o totalmente spente, che mi colpisce e che ho voluto raccontare, perché poi in fondo è qui, nelle pieghe delle contraddizioni, che si annida la potenza della memoria, delle tradizioni che riflettono l’identità di un luogo, delle storie che rivelano i valori profondi e le connessioni con la natura, ma anche tra tutti gli esseri umani. Che poi è il senso più profondo di ogni vita, questo essere in relazione profonda gli uni con gli altri, essere comunità, instaurando parentele, come dice Donna Haraway nel suo splendido Chthulucene.
Scellerate è il suo primo libro. Come è stato il passaggio dalla sua esperienza professionale alla scrittura di un libro?
Le parole sono il mio ambito di studio e di lavoro, essendo una docente di Lettere e al contempo una giornalista. Credo nel potere che le parole hanno nel plasmare la realtà e i pensieri: Bruno Migliorini diceva che noi esseri umani siamo onomaturghi, cioè datori di nomi alle cose. Da sempre la parola mi affascina e con essa tutti gli ambiti che le si connettono: la semiotica, la semantica, l’etimologia, la linguistica, la dialettologia. Ma scrivere un libro è un’esperienza del tutto diversa, è qualcosa di profondamente trasformativo per chi scrive, perché non è solo un lavoro su un certo tipo di contenuto e sulla forma che ad esso si decide di dare, ma è qualcosa che ti costringe a guardarti dentro più di quel che credi e a metterti in gioco, a metterci la faccia. Al contempo è un lavoro completamente immersivo ed estremamente malleabile: io non vedevo l’ora di tornare a scrivere nei momenti più disparati della giornata, molto spesso mi alzavo all’alba, facevo di tutto per ricavarmi momenti liberi e mettere su carta le interviste alle donne, ragionare su cosa inserire o meno. E poi cancellare. Rileggere. Cancellare ancora. Non essere mai soddisfatti. A volte esserlo e sorridere. Ma poi ancora e ancora cancellare. Sono felice che Gianluca Salustri, con la sua bella realtà editoriale, abbia creduto in questo lavoro: la mia gratitudine è immensa.
Ha esperienza come speaker radiofonica. La musica ha avuto un ruolo nell’ispirazione di questo libro o nella costruzione delle sue atmosfere?
La musica è un linguaggio universale, forse il più alto e spirituale su questo nostro piccolo pianeta. Sono onnivora per quel che riguarda la musica, cosa che non mi capita con i libri o col cinema, ad esempio. È per questo che i riferimenti musicali nel libro sono numerosi e di diverso genere, soprattutto nei tre racconti dell’appendice: alcune sono aperte citazioni, altri sono rimandi più o meno espliciti, ma sicuramente -quando sono presenti- influenzano il tono della narrazione, spesso sono parte della scena oppure evocano ricordi o stati d’animo specifici che arricchiscono la lettura. In particolare, uno dei racconti si apre proprio con una piccola suggestione sull’inserimento della musica nei libri, sul legame tra le parole scritte e le note musicali. Qualcuno potrà persino ritrovarsi a canticchiare qua e là. Dunque sì, ho attinto da un background in continuo aggiornamento, stando attenta a non sovrastare mai con la musica le voci delle donne raccontate ma anche e soprattutto quella della natura, che a volte sussurra e altre volte resta persino in completo silenzio.
Dopo Scellerate, ha già in mente nuovi progetti editoriali?
Sì, mi piacerebbe molto e c’è un’idea che pian piano sta prendendo forma, ma c’è molto da lavorare, vediamo se si concretizzerà realmente.