Parole&Suoni, Lucio Dalla e Omero: il viaggio verso Itaca dei “poveri cristi”
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Il mare, i marinai, l’andare oltre. Temi ricorrenti nelle canzoni di Lucio Dalla. Così come i sogni, l’amicizia. I rapporti tra i grandi e la massa dei poveri cristi che li accompagnano nelle loro avventure. “Itaca” è tutto questo.
L’eroe omerico, che impiega 10 anni in mare per tornare da Penelope, è il protagonista del brano del cantautore bolognese. La sua vicenda viene però qui raccontata dal punto di vista di uno dei suoi marinai. A parlare, a invocare il ritorno a Itaca è proprio uno di quei poveri cristi di cui sopra. Accompagnato nel ritornello dal coro di tutti gli altri componenti della nave.
“Capitano, che hai negli occhi
Il tuo nobile destino
Pensi mai al marinaio
A cui manca pane e vino?”
Inizia con queste parole la canzone di Dalla. Ma tutto il brano è su questo motivo. I marinai si chiedono costantemente cosa pensa il capitano, se dedica mai un attimo a cosa manca loro. Alla loro voglia di tornare a casa. Perché loro sono il braccio che mette in azione le sue passioni. Come a dire che senza di loro lui sarebbe ben poco.
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Lucio Dalla, che probabilmente trovò la sua Itaca a Roma (“io sono nato a Bologna forse per caso, ma il mio territorio d’azione in senso affettivo, in senso psichico è Roma. Era scritto forse che io venissi qua perché questa è la mia vera città. Per quanto Bologna sia una città splendida, meravigliosa, organizzata, con delle strutture perfette, una città fatta, sembrerebbe, a misura dell’uomo… Io si vede che non sono l’uomo adatto per stare a Bologna“, raccontava sempre a Elena Doni nel 1973), canta l’Odissea da un’altra prospettiva. Da quella di chi viaggia per dovere, non per passione. Di chi nelle mille peripezie che abbiamo studiato a scuola ha perso la vita, ha provato dolore, senza essere minimamente ricordato.
“Capitano, le tue colpe
Pago anch’io coi giorni miei
Mentre il mio più gran peccato
Fa sorridere gli dei
E se muori, è un re che muore
La tua casa avrà un erede
Quando io non torno a casa
Entran dentro fame e sete“.
Gli dei, così come noi a oltre duemila anni di distanza, non li ricordano. Al centro della vita del poema vi è Ulisse. Ancora oggi si parla della sua voglia di mare e di avventura. Del suo ingegno. Del suo amore per Penelope. Ma con “Itaca” Dalla ci spinge ad andare oltre. A guardare oltre lo scritto. A pensare che senza di loro, quella massa di poveri cristi di cui ogni tanto compare il nome ma che risultano più un contorno, Odisseo non avrebbe mai raggiunto casa sua.
Analizza, come in molte altre sue canzoni, il problema vissuto dall’uomo comune, il suo dolore. In questo brano, poi, in cui si intuisce una voglia di dare importanza alla collettività, grazie alla quale si sublima il singolo: in questo caso il capitano, nonché re di Itaca.
Una voglia di esaltazione della forza comune contro l’esaltazione del singolo. Come fece, in un contesto diverso, in “Comunista” in cui cantò “Canto l’uomo che è morto, / non il Dio che è risorto.” Sempre, dunque, la volontà di partire dal basso esaltando ciò che lì vi avviene.
Una volta, spiegando un verso di un suo brano, il cantante emiliano disse di aver “sempre ritenuto che il respiro sia più forte del tuono“. Quasi a voler dire che anche un qualcosa che si ritiene ininfluente in realtà può essere molto più forte di altro valutato più importante. Come nel caso specifico di “Itaca” del ruolo dei marinai. Senza di loro Ulisse non sarebbe mai tornato a casa. Starebbe ancora vagando per i mari. La sublimazione del suo essere eroe non sarebbe avvenuta senza la massa dei poveri cristi protagonisti del brano di Lucio Dalla.