L’intervista. Ghigo Rezzulli presenta “Dizzy”, il nuovo album da solista
Dallo scorso 6 dicembre (proprio in concomitanza con il 44° anniversario del primo concerto dei suoi Litfiba), è disponibile sulle piattaforme digitale di streaming la nuova fatica di Federico “Ghigo” Renzulli, Dizzy, un viaggio musicale intenso e coinvolgente che riflette tutte le sue ispirazioni culturali e artistiche e che si contraddistingue per una continua alternanza tra momenti pacati e improvvise sterzate energetiche, dando vita ad un’esperienza d’ascolto ricca di contrasti e significati (non a caso la parola che dà il titolo all’album e alla title track in inglese significa “vertiginoso”). Composto da 15 brani, il nuovo lavoro del chitarrista avellinese è disponibile in formato digipack CD e doppio vinile a 33 giri.
Quale migliore occasione per scambiare due chiacchiere con una delle leggende viventi del rock italiano? Ecco cosa ci ha raccontato.
Partiamo proprio dall’inizio: puoi raccontarci come è nato Dizzy? Sei entrato in studio con tutte le tracce pronte o qualcosa è cambiato strada facendo?
Il mio è un processo compositivo che va un po’ a corrente alternata, innanzitutto. Ci può essere un periodo, anche molto breve, durante il quale scrivo tantissimo e poi magari invece mi fermo per un bel po’. In ogni caso quando si è trattato di inciderlo avevo quasi tutte le canzoni praticamente pronte, fatta eccezione per Engelcord Suite. Non è stato comunque un lavoro molto difficile, dovevo solo capire come indirizzare bene il mio viaggio visto che si tratta di un album sperimentale. Per esempio mi era chiaro fin dall’inizio che non volevo ci fossero troppi assoli e che invece risaltasse molto di più l’armonia complessiva dei pezzi. Diciamo che nella gestazione ho ragionato più come un musicista classico che come un musicista rock, ecco. Ho puntato molto sull’insieme.
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Il desiderio di sperimentare sonorità diverse permea molti nuovi brani, si sente. Al di là della già citata Engelcord Suite, per esempio, mi viene da pensare anche a pezzi come Hermosa o Texana. Qual è il “faro” che ti illumina in questo tuo nuovo percorso, la tua principale esigenza?
Io ho sempre voluto andare avanti con la mia musica, ho sempre voluto rischiare qualcosa senza adagiarmi troppo su certe forme collaudate. Engelcord Suite ne è in effetti un buon esempio: la scintilla è nata durante un concerto dei Rammstein, band che amo moltissimo, a Padova. Durante il set hanno suonato una versione di Engel, uno dei loro pezzi storici, davvero particolare, con due pianoforti (suonati da due bellissime ragazze) e una coreografia pazzesca. In quel momento, ascoltandola, ho pensato che la sua progressione armonica mi ricordava il celeberrimo motivo di Nino Rota per Amarcord di Fellini. Ho subito pensato di farle coesistere all’interno di un’unica composizione e così è nata Engelcord suite, anche se a dire il vero ci ho impiegato due mesi per tirarla giù e, quando si è trattato di inciderla, visto che non ero completamente soddisfatto della prima versione, sono praticamente ripartito da zero. Anche Texana e Hermosa sono due estratti di Dizzy molto particolari: il primo si può dire che rappresenti il mio modo di vedere il Texas (che per me è sempre quello degli indiani, non dei cowboys!) e la sua musica e l’assolo che suono è una rielaborazione di quello che già suonavo durante i concerti dei Litfiba di qualche anno fa quando decidevamo di concedere qualche minuto di riposo a Piero Pelù; il secondo invece può essere considerato una sorta di stato d’animo rispetto a quello che può essere un rapporto di coppia, è il mio modo di descriverlo a 360 gradi tra spiritualità e carnalità e, dunque, aveva bisogno di ricorrere ad uno spettro musicale particolarmente ampio.
Durante questa tua nuova avventura No-Vox ti è mai accaduto di pensare: “Cavolo, qua ci starebbe proprio bene una linea vocale!”? Più in generale, quant’è complicato per chi come te ha scritto e arrangiato per tanti anni pezzi che poi sarebbero stati cantati, ragionare in termini solo strumentali? Hai mai avuto la tentazione di tornare indietro? E, se è avvenuto, con chi ti sarebbe piaciuto collaborare?
Ad essere sincero, questa tentazione l’ho avuta molto di più per Cinematic (il mio primo album) che per Dizzy, perché ormai mi sono abituato a far sì che le “voci” del disco siano prodotte dagli strumenti più che cantate da qualcuno. Ma anche questo modus operandi non deve essere considerato uno schema fisso: in questo mio progetto solista, infatti, potrebbe succedere in futuro che io mi senta tentato di buttar dentro qualcuno a cantare, chi può dirlo? In quel caso, se non con Piero, mi piacerebbe collaborare con artisti della “vecchia guardia” che stimo, come Omar Pedrini, o magari Zucchero, anche se lui ha un’impostazione più marcatamente rock-blues di quella che io immagino possa servire per portare avanti certi discorsi (ovviamente, ci tengo a dire che nutro nei suoi confronti una grande, grande stima). Tra le nuove leve, invece, ad esser sinceri non mi viene in mente nessuno con cui poter collaborare.
Al di là delle tre date di presentazione del disco già schedulate per il prossimo febbraio 2025 (L’1 all’Alchemica di Bologna, il 6 al Defrag di Roma e l’8 al Legend di Milano), pensi ci sarà una tournée vera e propria, più avanti? Quali sono le difficoltà, in un periodo particolare come questo, per metterla in piedi? E, soprattutto, non ti manca esibirti dal vivo?
Parto dalla fine della tua domanda: sì, certo, un po’ mi manca esibirmi live con la continuità di prima, anche se, non nascondiamoci, qualche acciacco fisico, soprattutto alle ginocchia, non manca di questi tempi. Però devo dire che anche lavorare a casa e in studio non mi dispiace affatto (come accadeva già ai tempi dei Litfiba, d’altronde). Su Dizzy hanno suonato un totale di ben 15 musicisti e non è facile, come immaginerai, capire come allestire una formazione in grado di riprodurre dal vivo il sound del disco. Diciamo che oltra alla formazione classica con due chitarre, basso, batteria e magari una tastiera, non sarebbe per niente male avere una piccola sezione di fiati. Al momento ti posso dire che ci sono delle prove in corso e che ho preso un chitarrista peruviano, molto bravo con l’acustica che mi accompagnerà dal vivo, ma si stanno ancora facendo tante valutazioni. Non ultima, anzi, direi proprio la prima, sulle eventuali locations. Un progetto come è il mio adesso non starebbe bene nelle classiche arene rock, neanche in locali magari più piccoli ma comunque facilmente riconducibili ad una chiara “tipologia” musicale come è stato in passato. No, data l’atmosfera molto intima e particolare che lo caratterizza, io Dizzy lo vedo bene nei teatri, magari abbinato a qualche altra forma espressiva extramusicale, tipo qualche danzatrice o un supporto multimediale. È un mio desiderio trasformarlo in un vero e proprio spettacolo, in una sorta di musical non convenzionale. E per farlo ci vuole una base di progettazione solida sulla quale sto ancora lavorando insieme al mio staff e a quelli che potranno essere i miei compagni di viaggio.
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Ti conosciamo da sempre come un musicista piuttosto onnivoro a livello di gusti. In che modo è cambiato il tuo modo di ascoltare le sette note nel corso degli anni e di arricchire, di conseguenza, il tuo bagaglio di influenze? Che rapporto hai con l’approvvigionamento/scouting attraverso la rete?
Beh, possedendo una discografia personale a dir poco ricca, ascolto ancora moltissimo cd e vinili se te lo stai chiedendo. Però non disdegno affatto il ricorso ai vari Spotify, Amazon Music o Youtube, anzi. Continuo a scoprire quasi quotidianamente un sacco di cose, in particolare per quanto riguarda il metal. Mi piace moltissimo il filone gothic e le sue varie filiazioni, escono di continuo delle novità eccitanti. Di rock, invece, ad essere sincero mi colpiscono pochissime cose nuove, perché per come la vedo io oggi c’è molta moda e poca sostanza e, senza un certo tipo di attitudine, poi si sente che le cose non vengono bene, che sono di facciata. Come sempre, ascolto anche molto country e molto folk, non solo quello americano, ma proveniente da ogni angolo del mondo. Per esempio ascolto qualche gruppo tibetano che suona con i loro strumenti che mi fa impazzire o le tre ragazze georgiane del trio Mandili, che mi piacciono moltissimo. O anora le tre sorelle messicane dei The Warning, che hanno un suono hard rock più canonico, ma non per questo poco intrigante.
I continui cambiamenti nel comparto degli strumenti e dell’effettistica musicale ha portato ultimamente a cambiamenti significativi nel tuo set up e nel modo di concepirlo? Ti piace ricorrere continuamente a nuovi ritrovati o, in questo senso, ti consideri vintage?
Guarda, se pensi che la maggior parte di quello che ho scritto è nato da una chitarra acustica e, una volta trovata una melodia e un’armonia, dai vocalizzi che ci improvviso sopra, capirai perché mi considero nel solco della tradizione più “tradizionalista” del cantautorato. Detto ciò, nel corso degli anni Ottanta dello scorso secolo, ho utilizzato a lungo un rack di effetti (con i “soliti” delay, chourus, ecc) fino a quando, parlando con un grande fonico francese dopo un concerto dei Litfiba a Bourges, mi sono deciso a “buttar via” tutto perché mi ha convinto del fatto che per trovare un suono giusto e personale l’unica cosa che conta è l’espressività che sai creare con le dita senza l’ausilio di altro. Ed è per questo motivo che dagli anni Novanta in poi il mio suono si è fatto molto più naturale. Fondamentalmente quello che faccio è quasi sempre attaccare una delle mie fedeli chitarre (non sono un collezionista invasato come molti miei colleghi) ad un amplificatore e suonare. Magari, qualche volta ci aggiungo un po’ di wah wah, ma molto meno di prima. Per quanto riguarda gli amplificatori, a proposito, continuo a preferire i Marshall 800 e 900, anche se non disdegno qualche Fender e, molto raramente, i Mesa Boogie. Da poco nella mia collezione è entrato poi un valvolare Mezzabarba classe A con il quale mi diverto non poco.
A distanza di 44 anni dalla tua prima esibizione con i Litfiba (il 6 dicembre 1980 alla Rokkoteca Brighton di Settignano) e di mezzo secolo di attività come pensi si sia trasformato il “sogno rock” di un ragazzo come potevi essere tu all’epoca? Ha ancora senso crederci, anche considerando i “canali di accesso” all’attuale scena musicale? Ci credi a certi compromessi (vedi la partecipazione ai talent) da cui sembra non ci si possa liberare?
Ti dico la mia, senza problemi: i talent non fanno bene alla musica. Sono utili forse alle case discografiche, che, sfruttando l’hype creato dalla televisione, possono investire quasi sempre molto meno nella promozione di qualcuno che in quei contesti si è messo in luce. Ma così il sistema a lungo andare non funziona, credimi. È tutto cambiato, prima per fare un disco dovevi davvero spaccare il culo, altrimenti non riuscivi ad emergere. Oggi c’è troppa roba non all’altezza, la rete ha portato ad un ingolfamento a volte davvero ingestibile, in cui poi annaspano anche quelli che hanno grandi qualità (perché quelli ci sono sempre, sia chiaro), Il pubblico non ce la fa a “digerire”, a focalizzare tutto quello che lo travolge. Ma poi pensiamo anche a un’altra cosa: prima, quando c’erano i dischi e si vendevano, le percentuali sui diritti d’autore erano decorose, ti permettevano, a fronte di vendite anche non esagerate, di potertela cavare e di poter fare con dignità questo lavoro. Oggi no, c’è un sistema balordo che ti fotte senza possibilità di errore. Come si può sopravvivere se i margini di guadagno su un ascolto si calcolano in centesimi? È un obbrobrio contro il quale bisogna ribellarsi e contro il quale qualcuno, naturalmente in America, non qui da noi, ha già cominciato a fare qualcosa ,cercando di impedire che la propria musica finisca in rete a queste condizioni oscene. Quando ero un ragazzo io, al “sogno rock” ci si poteva credere, sì. Io l’ho fatto, ho mollato università e posto fisso e mi sono buttato, ma la situazione non era certo questa. Mi fosse andata male, mi dicevo ai tempi, avrei fatto il mozzo sulle navi, ma c’erano margini per sperare di emergere e di sostentarsi attraverso la propria musica. Oggi non li vedo, non rischierei più quello che ho rischiato da giovane. Farei il musicista come secondo lavoro pur di conservare la mia indipendenza.
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Ti chiedono quali siano la canzone e l’album rock più importanti per l’Italia: tu, oggi, cosa rispondi? E quali ritieni come autore siano stati i tuoi contributi più importanti in questo senso?
Troppo difficile risponderti, dai! Non riesco a dirti quali siano la canzone o l’album più importanti qui da noi, però posso dirti che i C.S.I. hanno fatto qualcosa di davvero importante, soprattutto in termini di armonia e composizione (grazie anche a grandi musicisti come i miei ex compagni di band Maroccolo o Magnelli). E anche il già citato Zucchero e i Negrita.
Se poi mi chiedi quali sono i dischi dei Litfiba che amo di più e nei quali ritengo di aver lavorato meglio ti dico “17 Re”, “Terremoto” e “Insidia” (un album che nel 2001 non ricevette le giuste attenzioni da parte del pubblico e che spero in futuro possa invece essere considerato una delle migliori sortite discografiche della band. A tal proposito, ne ho curato ultimamente il remastering). Anche “Il Diablo” è venuto molto bene. Sulla singola canzone, invece, non riesco proprio a pronunciarmi.
Per certi versi, la Firenze degli anni Ottanta in cui siete sbocciati voi Litfiba con i Diaframma e i Neon è stata la città che forse più di tutte ha contribuito a creare una scena musicale “non convenzionale” qui da noi. Perché? Che cosa manca o mancava alle grandi città per partorire qualcosa di simile (al netto del discorso esclusivamente musicale)?
Dopo la Bologna degli anni Settanta, che in effetti era più divisa e dispersiva come scena nei suoi pur notevoli interpreti, siamo arrivati noi fiorentini (anche se io lo sono solo di adozione, essendo avellinese. Un’identità che rivendicherò sempre, ci tengo a sottolinearlo). Che dirti? Noi siamo, loro sono, un popolo con “la puzza sotto il naso”, come dico io (ride, ndr). Il fiorentino deve fare sempre cose diverse dagli altri. E nella musica rock e dintorni questa tendenza si è risolta in una proposta più arty, più sperimentale, che però ha avuto un impatto, se non maggiore di quello che ha caratterizzato le scene di altre città, metropoli comprese, di certo più duraturo.
Ben prima di fondare i Cafè Caracas e i Litfiba, hai trascorso un lungo periodo di formazione (definiamolo così) a Londra. Più che quello che hai pensato quando sei arrivato lì, mi interesserebbe sapere cosa hai pensato quando sei tornato a Firenze? Perché lo hai fatto, visto il fermento della capitale inglese dell’epoca?
Sono tornato per quelle che potremmo definire cause di forza maggiore. Ti racconto proprio l’aneddoto specifico: una sera andai al Marquee per assistere ad un concerto degli Ultravox, una band che adoravo. E, beh, ero a dir poco su di giri (avevo preso delle anfetamine) e mi ritrovai in questo locale-simbolo della scena musicale inglese (e non solo) dell’epoca che era letteralmente strapieno. Faceva un caldo che non riesco a dimenticare e sudai tutto quello che un essere umano può sudare in certe condizioni di affollamento. Bene, dopo la fine dello show, andai in bagno a darmi una sciacquata e, ancora esaltato da quello che avevo visto, decisi di rimanere a torso nudo e di tornare a casa così! Ora, come sai, Londra a novembre, di sera, non è esattamente paragonabile ai Caraibi e quindi dopo la passeggiata dal Marquee a Leicester Square dove ero di stanza, mi beccai un malanno pazzesco, addirittura una paresi! Dopo le prime cure a Londra, decisi che era meglio portare avanti la convalescenza in Italia e così tornai. Una volta guarito cominciai a metter su la cantina a via de’ Bardi 20 e, beh, cominciò una nuova avventura. Comunque non ho troppi rimpianti per aver abbandonato la terra albionica. D’altronde, ci dovevo rimanere 15 giorni dopo aver finito il militare e ci rimasi invece quasi due anni! Me la sono decisamente goduta. E in uno dei suoi periodi di maggior fermento.
A proposito di rimpianti… Prima di lasciarci: ti guardi indietro e sai di aver scritto con i Litfiba una delle pagine più importanti della storia del rock italiano, sicuramente quella più nota al grande pubblico. Nonostante ciò, hai qualche rimpianto, pensi ci sia qualcosa che oggi avresti voluto fosse andata diversamente?
Ma certo che sì, è normale. Tuttavia senza tanti sbagli, senza contrasti e successivi ravvedimenti, i Litfiba non sarebbero stati quello che sono stati, dunque va bene così. E quindi, no, alla fin fine posso affermare di non avere rimpianti.