Recensione. “Joy”: la storia di una nascita che ha cambiato il mondo
Tra i dieci titoli del momento di Netflix, troviamo il film “Joy” diretto da Ben Taylor, che racconta la vera storia di Louise Joy Brown.
La maggior parte dei lettori, che non hanno ancora visto il film, si starà chiedendo se dovrebbe conoscere il suo nome, cercando nei cassetti della memoria. Non saprete forse il suo nome, ma di certo consocerete la sua storia, una delle più straordinarie della medicina moderna: Louise Joy Brown è stata la prima bambina al mondo concepita grazie alla fecondazione in vitro, nata il 25 luglio 1978.
“Joy” è una storia vera che, oltre a celebrare il progresso scientifico, porta alla luce i dilemmi etici, le sfide sociali e l’impatto che questa innovazione ha avuto sulla vita di milioni di persone, nell’ultimo mezzo secolo.
“Joy“: il trionfo di scienza e speranza
“Joy” non è solo un dramma biografico, ma un ritratto di speranza e lotta contro l’ignoranza. Ambientato negli anni ’70, il film ruota attorno al concepimento in vitro di Louise e alla travagliata storia di sua madre, Lesley Brown, che insieme al marito John, aveva provato per anni ad avere un figlio, ma senza successo.
La coppia si rivolge dunque ai medici Patrick Steptoe e Robert Edwards, pionieri della fecondazione assistita, per cercare di risolvere la loro difficile situazione.
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Joy narra la storia di un’avventura scientifica audace e di una rivoluzione medica che ha cambiato per sempre il concetto di fertilità e procreazione. In quasi due ore Ben Taylor costruisce tensione narrativa attorno alle sfide, sia scientifiche che sociali, che hanno accompagnato l’innovazione della fecondazione in vitro: una pratica che, all’epoca (ma in alcuni casi ancora oggi), suscitava forti polemiche morali e religiose.
Una sfida non solo per gli aspiranti genitori: il film esplora anche i sacrifici personali e professionali che i medici Steptoe ed Edwards dovettero affrontare nel tentativo di realizzare il loro sogno di aiutare più coppie possibili a diventare genitori.
Un cast più che azzeccato
Il ruolo di Lesley Brown è affidato a Samantha Morton, che offre una performance intensa e autentica nel ruolo di una donna disperata per avere un figlio, ma anche piena di speranza nonostante le difficoltà. La sua interpretazione cattura la vulnerabilità di una donna che si sente giudicata dalla società, ma che non esita a fare il possibile per diventare madre.
Daniel Mays (John Brown, marito di Leslie) porta invece sullo schermo un uomo che, pur nel suo amore per la moglie, si ritrova a dover affrontare le incertezze e i pregiudizi di una società che vede la medicina riproduttiva come qualcosa di innaturale. La chimica tra Mays e Morton è palpabile, rafforzando il legame emotivo che lega la coppia e la loro lotta comune.
Anche la messa in scena di Mark Dexter e Christopher Eccleston (i medici Steptoe e Edwards) convince: la loro recitazione non si limita a portare avanti la “parte scientifica” della storia, ma dà vita alla passione e alla dedizione che animano i protagonisti nel combattere contro il tradizionalismo e l’opposizione istituzionale.
Un film tremendamente attuale
Una fotografia intima, un ritmo accattivante, una colonna sonora delicata e mai invadente: il regista adotta un approccio sobrio ma potente, mettendo al centro una storia emotiva e personale senza rinunciare a una dimensione più ampia e universale.
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Oggi, la fecondazione in vitro è una pratica comune e sicura, che ha aiutato milioni di persone in tutto il mondo a realizzare il sogno della genitorialità: la tecnica è stata inizialmente accolta con resistenza, sia dalla comunità scientifica che da quella religiosa, ma ha avuto un impatto devastante sui pregiudizi legati alla fertilità e al ruolo delle donne nella procreazione.
Eppure il film solleva questioni etiche e sociali ancora molto rilevanti: la tematica della fecondazione in vitro continua a essere oggetto di dibattito, soprattutto in contesti religiosi e conservatori (non così rari nella società odierna), in cui la tecnologia viene talvolta vista come una “manipolazione” innaturale della vita umana.
Possiamo affermarlo senza troppe remore: il progresso scientifico che ha permesso a Louise Joy Brown (e ad altri 8 milioni di bambini, secondo una stima pubblicata dalla Società Italiana Studi di Medicina della Riproduzione) di nascere è tuttora minacciato da forze sociali che vedono nella scienza una sfida alle tradizioni e alle convinzioni morali.
In un’epoca in cui la medicina continua a progredire, con nuove tecniche di procreazione assistita, è importante riflettere su quanto la scienza e la società siano capaci di evolversi insieme. “Joy” ci invita a considerare il progresso scientifico come una parte fondamentale della crescita collettiva, pur non dimenticando le implicazioni morali e sociali che ogni nuova innovazione porta con sé.
La storia di Louise Joy Brown è un monito che ci ricorda quanto sia importante lottare per il cambiamento e per il progresso, anche quando le circostanze sembrano avverse. Un invito a riflettere su come le innovazioni scientifiche possano influenzare positivamente le vite delle persone, ma anche a essere consapevoli delle resistenze culturali e sociali che queste possono suscitare.
In un mondo che continua a evolversi, la scienza, la medicina e i diritti delle donne dovrebbero essere visti come alleati in un cammino comune verso una società più giusta, aperta e inclusiva. Ma forse, a quasi cinquant’anni dalla nascita di Louise Joy Brown, non siamo ancora pronti per questo discorso.