L’intervista. Stefano Fresi è “Dioggene”, tra epica e commedia, sberleffi e crudeltà
Da stasera fino all’8 dicembre, all’Ambra Jovinelli, Stefano Fresi sarà il protagonista-mattatore di “Dioggene”, scritto e diretto da Giacomo Battiato, che ha già riscosso un successo unanime di critica e pubblico fin dalle sue prime messe in scena dello scorso anno.
Tra Epica e commedia, sberleffi e crudeltà, lo spettacolo vede decisamente sugli scudi l’eclettico attore romano, autore di una prestazione interpretativa di indimenticabile intensità.
Lo abbiamo raggiunto a poche ore dal debutto, facendoci raccontare qualcosa sul suo personaggio e, con l’occasione, facendo anche il punto su alcuni altri progetti che lo hanno visto coinvolto ultimamente.
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L’intervista a Stefano Fresi
Il testo di Battiato si compone di tre monologhi molto potenti e, per quanto legati, differenti tra loro. Come ha trovato, stando da solo in scena, la chiave per catturare l’intensità necessaria a uniformarli e a differenziarli e cosa cambia nel corso di ogni replica quando deve arrivare a questo risultato?
Il cammino per arrivare a “definire” questo spettacolo è stato arduo, anche se io e l’autore-regista ci siamo subito sintonizzati su una stessa identità di pensiero che poi è stata trasmessa a tutte e tre le incarnazioni del protagonista dei tre monologhi. Sia io che lui, ci identifichiamo molto con lui/loro, perché riscontriamo dei vizi e delle virtù, delle debolezze e dei cedimenti interiori che sono assolutamente propri dell’essere umano. Questo ci ha consentito di far crescere il personaggio mano mano, ma questo non vuol dire che lo abbiamo mai considerato definitivamente strutturato: infatti, basandoci sulle risposte e sugli stimoli del pubblico ogni singola sera, ci sono sempre delle cose che poi vogliamo cambiare e che poi effettivamente cambiamo. D’altronde, lo scambio è fondamentale a teatro, altrimenti staremmo parlando di altro.
In che modo il suo personaggio si trasforma da Nemesio Rea in Dioggene? Qual è il processo umano che si realizza?
Beh, nel primo atto è un attore ancora in formazione che si cimenta con un testo difficile del Duecento in cui si parla sì di una battaglia violentissima in cui perirono, si stima, circa 12.000 uomini (quella di Montaperti tra Siena e Firenze del 1260), ma anche e soprattutto di violenza familiare (il soldato che impersona è fuggito dalle angherie paterne arruolandosi) e dell’assurdità della guerra, un tema quanto mai attuale. Nel secondo monologo, invece, Nemesio è un attore di grande fama internazionale che, proprio poco prima di portare in scena “Il diavolo e il buon Dio” di Sartre, viene definitivamente lasciato dalla moglie in camerino. Le accuse di narcisismo e di violenza psicologica lo inducono a riflettere su come ha vissuto fino a quel momento, a considerare quello che non ha capito, a capire perché venga considerato un mostro dalla sua donna. E il risultato è una forte presa di coscienza del fatto di essere sbagliato, scoperta che lo induce a mollare agi e carriera, oltre che lo spettacolo stesso. Nel terzo e ultimo “atto”, si è ormi trasformato in un barbone romanaccio che vive in un mondezzaio (quantunque ricorra continuamente a delle dottissime citazioni) e che si è spogliato di tutta la sua superbia. Ha compreso che, in quanto essere umano, solo l’autospoliazione da certi orpelli lo può portare ad una necessaria, salvifica purificazione. E soprattutto a recuperare una vera cognizione dell’amore, che è l’unica vera forza motrice con la quale andare avanti a testa alta nella vita. Ecco, penso che sia proprio questa necessità di recuperare l’amore ciò che viene trattato meglio e meglio preparato nella pièce.
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“Dioggene” tocca tanti temi importanti e attuali nel corso del suo svolgimento. Se la sente di dirci, dal suo punto di vista, quali sono quelli meglio indagati e perché?
Beh, direi innanzitutto, e cronologicamente, l’assurdità della guerra, un assunto che è in grado di razionalizzare anche il bifolco impersonato da Nemesio nel primo monologo quando si trova a dover constatare l’altissimo numero di morti e di sofferenze provocati dalla battaglia di Montaperti. Un argomento che poi torna anche nel terzo quadro quando Dioggene capisce che, nonostante lo scorrere inesorabile del tempo, nulla è cambiato nell’atteggiamento dell’uomo verso la guerra e che è difficile continuare a pensare, contrariamente a quanto si dice e si crede forse solo per confortarsi qualche volta nei momenti di sconforto, che nell’uomo ci possa essere del divino se continua ad indulgere in certi errori.
Anche la violenza domestica penso sia un tema molto ben sviscerato in questi novanta minuti, in tutti e tre i monologhi ma soprattutto nel secondo e nel terzo, dove si capisce quanto i difficili rapporti tra padri e figli possano creare catastrofi nella formazione delle persone.
Infine, direi che ha un suo peso specifico assai rilevante anche il maltrattamento che molte donne sono spesso costrette a subire dai propri partner, senza per questo lasciarsi sconfiggere da quello che sembrerebbe un infausto destino, perché, come dice Dioggene, “le donne ingrandiscono tutto quello che gli dai“.
Giacomo Battiato ha dichiarato che fin da subito ha pensato soltanto a lei come possibile protagonista di questo spettacolo. Solo un onore o anche un onere? La sua riconosciuta bravura e sensibilità attoriale le risultano sempre facili da gestire in scena?
Beh, io lascio che il giudizio definitivo sulla mia performance in scena lo dia soltanto il pubblico. Io cerco di fare al meglio il mio lavoro, di migliorare, di studiare. Soprattutto di rendermi sempre conto di cosa non va. Penso alle mie mancanze più che ai miei meriti. Quindi si può star certi che non mi sieda mai sugli allori, davvero. Certo, il ruolo me lo sento cucito addosso, non lo nego, anche perché dentro questo personaggio ci sono molte cose mie che Battiato mi ha permesso di trasmettergli. Lui è davvero un grande, un regista di fama internazionale, ma anche una persona che ha sempre saputo ascoltarmi. Non è certo scontato.
Se fosse in vita oggi, cosa ci direbbe il vero Diogene? Quale pensa potrebbe essere un suo “gesto eclatante” contro l’iperformalizzazione di questo nostro mondo attuale?
Non solo Diogene. Io credo che tutti i filosofi greci dal VI secolo a.C. al III d.C. siano stati straordinari e che la loro speculazione conservi un’attualità incredibile. Probabilmente, se fosse vissuto oggi, Diogene avrebbe fatto qualcosa di simile a quello che fa il mio personaggio nello spettacolo, tipo vivere in un cassonetto. Per far capire quanto noi uomini siamo piccoli nonostante la nostra superbia. D’altronde, se volessimo citarlo, lui direbbe: “Anche il sole entra nelle latrine”.
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Da un po’ di tempo la vediamo impegnata in tv nei panni di Kostas Charitos. Conosceva già i romanzi del grande Petros Markaris e cosa le ha lasciato professionalmente e umanamente questa esperienza?
No, non conoscevo le sue opere prima e me ne sono innamorato all’istante quando le ho lette, ancor di più dopo aver conosciuto Markarīs ed averlo accompagnato in alcune recenti presentazioni qua in Italia. Un uomo di uno spessore unico, una persona favolosa. Ci tengo poi a dire che Milena Cocozza (la regista della serie tv, ndr), mi ha messo molto a mio agio quando si è trattato di “trovare” il mio personaggio, che è quello che definirei un burbero buono, molto divertente tanto sul lavoro quanto a casa, nonostante il suo ruolo di commissario. E, soprattutto, è un antieroe vero che non ha paura di confrontarsi con niente e con nessuno quando un’indagine è in corso. Ho davvero amato vestirne i panni. E ho davvero amato anche la città di Atene, che non conoscevo e nella quale abbiamo girato le riprese per circa 4 mesi. Ci vuole tempo per capirla davvero, la capitale ateniese, ma una volta che ci sei “entrato” dentro, te ne innamori senza via d’uscita. A me perlomeno è successo così, anche grazie alla lettura del libro di Markarīs “Io e Charitos”, non soltanto uno strumento utile per un attore che deve entrare nella parte di Charitos, ma anche un favoloso “grimaldello” con il quale rindirizzare la visuale disattenta di una città che solo in apparenza può sembrare priva di fascino. E poi voglio citare un episodio: un giorno, durante una pausa di lavoro, stavo osservando poco prima del tramonto i boiler che campeggiano sul tetto di ogni casa, palazzo ateniese. A vederli così, sotto una luce insignificante, non attirano l’attenzione, anzi, sono davvero orribili. Poi però, quando il calar del sole spande su di loro la propria luce, lo spettacolo oculare che regalano è unico, surreale, è una cosa che non ho mai visto da nessuna parte. Speriamo di tornarci presto nella capitale greca e di girare una nuova serie tratta dai libri di Markarīs!
Ultima domanda: per lei che viene dalla musica, quali sono le novità più eccitanti nel panorama italiano e internazionale oggi? Cosa ascolta Stefano Fresi? E, già che ci siamo, bolle qualcosa in pentola nel futuro prossimo su questo versante?
Devo essere sincero; non ascolto molta musica nuova, né italiana né internazionale. Sono ancora fermo ai miei soliti gusti del passato, quelli che vanno dalla sinfonica al grande rock, che poi sono gli stessi con i quali sono cresciuto. Se proprio dovessi fare un nome, ti direi Ghali. L’ho scoperto grazie a mio figlio quattordicenne che ne è un fan e trovo la sua proposta artistica abbastanza intrigante. Ma, no, non sono un conoscitore o un apprezzatore particolare di quello che avviene nel mondo delle sette note oggi.
Per quanto riguarda invece l’aspetto lavorativo, adesso con i Favete Linguis siamo fermi, dunque mi diletto a suonare e a scrivere qualcosa a casa, per me. Ma niente che al momento io pensi di utilizzare per qualcosa di specifico. Sono molto concentrato sulle altre cose che sto facendo e non mi manca fare il musicista a tempo pieno come ho fatto in passato (non solo per vocazione ma anche e soprattutto per mantenere la mia famiglia).