L’intervista. Max Paiella canta e racconta Enzo Jannacci: risate e lacrime nel denunciare emarginazione e solitudine
La storia minima di Enzo Jannacci vista da un fiorentino e un romano, un po’ narrata, concentrata, un po’ cantata da Max Paiella e Simone Colombari. Jannacci noi lo possiamo vedere in tanti modi diversi, nei dialoghi al bar nel rigore sbagliato, nella foto di un figlio senza motorino, in Cochi e Renato, in Paolo Conte, in Walter Chiari, in Dario Fo, nel Jazz in un locale fumoso, nel cielo grigio ma anche n un prato verde in una foto in bianco e nero di una donna davanti ad una fabbrica in inverno che si chiamava Vincenzina.
L’amore per il rock, per il jazz ma soprattutto per le persone e le loro storie raccontate in canzoni che hanno scritto la storia, a volte di qualità talmente sopraffina da risultare indefinibili, leggere come aria e allo stesso tempo spesse e profonde, definitive. Nella nostra intervista, le parole di Max Paiella.
Quale è stato il vostro approccio nel portare in scena la carriera e il pensiero di un artista come Jannacci?
Simone ed io, scrivendo lo spettacolo ci siamo resi conto di come Jannacci possedeva la straordinaria capacità di descrivere il mondo entrandoci, senza filtrarlo dal proprio punto di vista come, invece, fanno molti cantautori. Non stipulava compromessi con le cose che faceva e sapeva parlare dell’essere umano senza essere giudicante, una dote rara.
Aveva sviluppato un suo lirismo molto comico e ironico, spesso anche pungente ma anche tragico. Proprio per questo non era comprensibile a tutti, certamente non era di facile interpretazione. Mi sono rimaste impresse le parole che Marino Bartoletti una volta mi disse, e cioè che di Enzo avevamo capito forse il 30% di ciò che era, di cosa pensava e di cosa scriveva. Cantare in dialetto milanese e farlo scrivendo cose complicata non era certo agevole per un ascoltatore. Io da piccolo non lo capivo, lo trovavo stravagante e questa cosa mi spiazzava perché non sapevo come approcciarvi.
Da adulto, ho capito molto altro: il suo mondo è molto vasto e anche oggi continuo a scoprire sempre qualcosa di nuovo. Era incredibilmente avanti con i tempi in un periodo in cui c’erano cantautori straordinari, soprattutto negli anni 60 e 70 lui aveva la capacità e la dote di parlare di emarginazione senza essere essere politicizzato. Jannacci è stato un animo libero, la sua creatività e il suo umorismo erano uno strumento per parlare della gente comune, metteva la risata l’empatia e anche un certo tipo di disperazione, al servizio delle persone ai margini della società. Abbiamo voluto omaggiarlo partendo da da queste considerazioni.
Come avete individuato i punti salienti attorno cui costruire la sceneggiatura dello spettacolo? Soprattutto, quanto è stato complicato circoscrivere in così poco tempo una carriera tanto originale?
Lo spettacolo dura quasi due ore: è difficile dare un quadro esaustivo di Jannacci. Questo lavoro nasce alcuni anni fa quando al Ruggito del Coniglio facevo i suoi pezzi come L’Ombrello di suo fratello, Sono un ragazzo padre e Son sciupaa, avevo scribacchiato qualcosa in merito ai legami con altri artisti, ad esempio la modalità che trovo simile a quella di Vasco Rossi, e le citazioni di canzoni degli anni trenta, come “L’amor non sa tacere” su Rido o il ritornello di Silvano cosi simile a “Gastone” di Petrolini. giusto per fare degli esempi concreti. Poi la scrittura dello spettacolo assieme a Simone Colombari è stata molto piu lunga e complessa oltre che divertente.
Scoprire Jannacci è stato l’equivalente di un viaggio in una terra sconosciuta dal momento che è difficile dare un senso ad alcuni dei suoi testi, specialmente laddove c’è un lirismo che sfocia volutamente nel surreale. E non è neanche facile individuarlo quando senso dell’umorismo e tragedia si bilanciano e spalleggiano. Nei suoi brani però c’è anche molta provocazione, per questo e’ stato necessario spiegarlo in uno spettacolo tanto che molti spettatori a cui neanche piaceva Jannacci, con noi lo hanno scoperto.
Cosa che, ad esempio, accomunava anche Giorgio Gaber e una certa scuola cantautorale milanese. Se prendiamo, giusto fare una citazione, “La ballata del Cerutti” scopriamo che si tratta di una canzone popolare cioè quello che si definisce “pop” ( termine spesso usato inopportunamente per definire canzoni d’amore) . La ballata del Cerutti: una storia neo realista, quest’uomo della periferia milanese (che poteva essere di qualsiasi altra realtà suburbana italiana), senza una lira, sempre a cercare di tirare a campare un ingenuo che si mostra furbo e forte Una storia popolare alla stregua di un personaggio di Petrolini come Gigi er bullo.
Crede che la grande forza di Jannacci sia stata la grande capacità di saper fondere una proposta musicale di alto livello con testi apparentemente scanzonati ma dalla forte impronta sociale che spesso sfociavano in denunce, come nel caso di “Vengo anch’io no tu no”…
Esattamente, è proprio così. Con la musica si tende ad attribuire delle etichette agli artisti, cercandogli una connotazione ben precisa, cosa che alcuni di loro cercano di proposito, ma Jannacci non voleva essere catalogato.
Ha raccontato di tutto, dell’emarginazione e dei sentimenti quando cantava ‘Io e Te’ dove descriveva una situazione di profondo disagio sociale, affettivo, lavorativo e di vuoto verso l’avvenire. Un tipo di disagio molto attuale, se ci pensi. La frase ‘l’avvenire è un buco nero in fondo al tram’ è definitiva e possiede quell’importanza storica di chi ha intercettato un disagio che si sarebbe verificato in modo ancora piu forte nel tempo, il disagio della nostra epoca dove molti ragazzi non riescono ad immaginare un futuro.
Cultura e intuizione hanno fatto la fortuna di Jannacci, laureato in medicina ha unito al suo lavoro di cantante e comico quello di medico, era un artista curioso dell’essere umano, intelligente ma anche folle, sapeva parlare con leggerezza di temi complessi.
La musica è ancora un mezzo di denuncia, secondo lei?
Certo che lo è. La musica ha una potenza incredibile puoi lanciare messaggi in qualsiasi ambito che entrano con forza nella coscenza della gente, chi scrive canzoni ha una grande responsabilità perché sono la letteratura con cui buona parte della gente ( specie chi non legge libri) forma i propri pensieri e le azioni. Il mercato discografico è scomparso da anni per lasciare spazio ad un suk di canzonette futili di ascolto facile scaricabili dal web e sopratutto lasciando all’immagine il compito di raccontare la musica in ambiti dove la polemica, il gossip e l’aggressione sono i veri protagonisti.
Ci sono eredi, in Italia, della scuola di Jannacci, oltre al figlio che ne tramanda l’opera?
Molti cantanti sono ben delimitati dal loro aspetto commerciale, credo che non venga concesso molto spazio agli spiriti liberi come Jannacci , se già aveva difficoltà negli anni 60 figuriamoci oggi, ci sono personalità che spiccano ma spesso non fanno parte del main stream. Se penso veramente a chi potrebbe prendere quel tipo di eredità cioè parlare dell’emarginazione, andare in profondità nel descrivere l’essere umano senza giudicarlo con una certa dose di umorismo ironia e tragedia mi viene in mente l’ambito del fumetto dove ci sono artisti geniali come Zerocalcare.
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Sul palco oltre a Max Paiella e Simone Colombari sono presenti Attilio Di Giovanni (pianoforte e direzione musicale), Gino Mariniello (chitarra classica ed elettrica), Alberto Botta (batteria e percussioni), Flavio Cangialosi, (basso e fisarmonica), Mario Caporilli, (tromba e flicorno) e Claudio Giusti (sax, tenore e contralto).
Lo spettacolo è in scena alla Sala Umberto di Roma dal 21 novembre al 1° dicembre
giov. 21 novembre h 20.30
ven. 22 – sab. 23 novembre h 21
dom. 24 novembre h 17
giov. 28 novembre h 20.30
ven. 29 – sab. 30 novembre h 21
dom. 1° dicembre h 17
Foto: comunicato stampa