Recensione. “La casa degli sguardi”: il lato oscuro della sensibilità con un cast più che convincente
“Te ce sei mai stato a un reading de poesia?”
Sette minuti di applausi e una standing ovation per il primo film da regista di Luca Zingaretti: il pubblico della Festa del Cinema di Roma ha ben apprezzato la delicatezza di “La casa degli sguardi“.
Il noto interprete del Commissario Montalbano pensava da molto tempo di mettersi anche dietro la macchina da presa e ha trovato la giusta ispirazione leggendo il romanzo omonimo di Daniele Mencarelli, da cui il suo primo film da regista è liberamente ispirato.
“La storia è una di quelle che piacciono a me: è una storia di speranza, di una persona che cade e della sua capacità di rialzarsi”
ha spiegato il regista e attore Luca Zingaretti durante la conferenza stampa de “La casa degli sguardi” alla Festa del Cinema.
Il protagonista è il ventenne Marco (un formidabile Gianmarco Franchini alla seconda esperienza sul grande schermo) con una straordinaria sensibilità che incrementa il suo talento nella composizione di poesie. In un mondo in cui essere un poeta sembra quasi un atto rivoluzionario, Marco riesce anche ad essere pubblicato e apprezzato.
Ma la sensibilità è un’arma a doppio taglio: permette di vedere la bellezza e il mondo con una luce diversa, ma percepire così tanto, assorbire tutto in modo profondo ed empatico può anche diventare una condanna. Quando scrive poesie, Marco sembra soffrire, i suoi nervi tremano mentre sembra letteralmente trasudare le parole, partorirle, farle emergere oltre la pelle facendosi attraversare dalle emozioni. Una sensazione così intensa, estatica e dolorosa allo stesso momento, che solo chi la prova continuamente può riconoscere e comprendere.
Per sopportare tutto questo sentire e soprattutto per sopperire alla mancanza della mamma deceduta qualche anno prima, Marco cerca di anestetizzarsi continuamente: cerca nell’alcol, nella droga, nelle gocce di ansiolitico, una via di fuga da se stesso e dal mondo, quello stato di incoscienza che gli dà l’illusione di non capire e sentire niente.
Quello di Marco è a tutti gli effetti un lento suicidio: lo conosciamo nella prima scena, mentre fa in modo che un camion lo tamponi, finendo in ospedale per giorni ma poi accusare una “finta” rabbia, dando sempre la colpa agli altri.
Lo sa bene suo padre, che lo raccoglie i pezzi del suo Marcolino dentro e fuori dagli ospedali, sui marciapiedi dei vicini, fuori dai locali. Lo racconta alla dottoressa del pronto soccorso, cui chiede se non possano trattenerlo al sicuro per un po’.
“Non è mica una malattia come le altre”
Il comportamento autodistruttivo di Marco, a partire dalla morte della madre – che coltivava la sua passione per la poesia, esortandolo ad accogliere la sua sensibilità, ma poi abbandonandolo ad affrontare da solo il risvolto doloroso della medaglia – lo ha isolato dagli amici e dalla fidanzata.
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A fianco a lui restano solo l’editore (un po’ psicologo) Davide e suo padre. Luca Zingaretti tiene per sé il ruolo di questo vedovo tramviere dell’Atac che viaggia per una Roma stranamente silenziosa tra il tramonto e l’alba. Un padre che non sa bene come affrontare il dolore del figlio, ha uno sguardo preoccupato ma non fa niente di drastico: non urla, non minaccia, non alza voce e mani, non dà ultimatum. Semplicemente incoraggia, ascolta, aspetta. Sta lì, pronto a raccogliere i cocci e tenerli su con colla scotch. Semplicemente c’è. Afferma Luca Zingaretti in conferenza stampa:
“Questo padre mi piaceva perché sta lì, e ha la capacità dello stare.“
Chiede a Davide una mano per trovargli un lavoro: tramite un amico, l’editore lo fa entrare in una cooperativa di pulizie in un ospedale pediatrico. L’essere praticamente un raccomandato non aiuta molto Marco, che soprattutto teme che il lavora in un posto come il Bambin Gesù possa spingerlo oltre i suoi limiti emotivi.
Eppure è proprio il lavoro che riesce a scuotere Marco, a fargli tirar fuori sogni e paure, ma soprattutto a fargli trovare un modo di stare al mondo. Non sarà tanto il contatto con la malattia e la morte, o le storie dei pazienti (come potrebbe sembrare pensando ad un altro filone di film e serie) a far scattare qualcosa in Marco. A farlo uscire, almeno per qualche ora, dal suo torpore: sono i formidabili colleghi della cooperativa di pulizie.
A partire dal caposquadra Giovanni (un Federico Tocci talmente autentico che a fine proiezione viene voglia di abbracciarlo) che sembra inevitabilmente diventare un secondo padre, un po’ più rude dell’altro (seppur capace di emozionare ed emozionarsi guardando cartoni animati con i piccoli pazienti della struttura), ma più “efficace”.
O ancora Claudio, interpretato da Alessio Moneta, che conquista ancor più che con il suo fascino, con il carisma e la capacità di strappare un sorriso o una risata con discrezione e delicatezza. E poi il sardo Luciano, tanto ambiguo quanto affabile – bien joué da Riccardo Lai, capace di far ridere senza mai cadere nel cliché e nella pesantezza.
Nell’universo di Marco entrano altri personaggi: la collega Paoletta (Chiara Celotto, affascinante nella sua semplicità) e il romantico Stefano (Marco Felli), tossicodipendente poeticamente appassionato di giardinaggio, il caposquadra Carmelo (Cristian Di Sante, insopportabilmente bravo nell’essere detestabile). Ma anche il barista burbero che (neanche troppo) silentemente sgrida Marco mentre gli serve alcol per colazione e un bambino con cui il ragazzo instaura un particolare rapporto.
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In “La casa degli sguardi” il dolore non viene esposto come qualcosa da cui anestetizzarsi e da rifuggire, ma come una tappa fondamentale verso la riscoperta della felicità e della speranza, del bisogno di aggrapparsi alla vita, anziché lasciarla andare. Secondo il regista infatti il film è:
“Una bellissima riflessione sul dolore: siamo abituati oggi a tentare di allontanarlo, lo demonizziamo, dimenticando che il dolore è anche catarsi. E la catarsi è necessaria per ripartire”
Così, ispirandosi all’omonimo romanzo di Daniele Mencarelli, Zingaretti esordisce alla regia, trovando un linguaggio in grado di arrivare dritto al cuore: l’immediatezza e la sincerità necessarie per raccontare diverse generazioni, mostrando la Roma di oggi dalla prospettiva di chi crede nel lavoro e nella scrittura. E decide di non mollare, malgrado tutto.
L’ingrediente segreto di “La casa degli sguardi” sta nella capacità di raccontare un dramma esistenziale, toccando temi come lutto, alcolismo, dipendenza da droghe, ansia, morte prematura in un modo autentico ma senza mai scadere nel melodrammatico.
Caratteristica riassunta nel volto del giovane protagonista, Gianmarco Franchini, capace di trasmettere una profonda rabbia e una malinconica tenerezza di fondo ma conservando una spontanea particolarissima smorfia, per cui sembrare trattenere il sorriso negli angoli della bocca.
Purtroppo bisognerà attendere la prossima primavera per goderne davanti ad un grande schermo, mangiando popcorn, tra un sorriso e una lacrima.
(Fonte foto: Festa del Cinema di Roma)