Recensione. “L’Art d’être heureux” è un’esilarante e profonda ode alla semplicità
Grande successo alla Festa del Cinema di Roma per la prima di “L’Art d’être heureux“, una commedia dolce-amara, al contempo esistenzialista e frizzante, diretta da Stefan Liberski.
Il regista belga, che nel 1987 seguì la lavorazione de “La città delle donne” di Fellini, anche romanziere e
autore di fumetti, partecipa al concorso della Festa del Cinema con un film liberamente ispirato dal libro “La Dilution de l’artiste” di Jean-Philippe Delhomme.
“L’Art d’être heureux” (“L’Arte di essere felici“) ha conquistato il pubblico e la giuria in sala con il potere della risata che cela profondi riflessioni sulla vita, sull’arte e sulla tanto agognata, quanto a volte data per scontata, felicità.
Benoît Poelvoorde interpreta Jean-Yves Machond, un pittore concettuale che a suo tempo conquistò la critica con un’esposizione di vuoti. Ed è proprio in una casa vuota di Bruxelles che lo incontriamo per la prima volta, tanco del costante fallimento e della mancanza di riconoscimenti, della solitudine e della frustante insoddisfazione, mentre farfuglia tra sé e sé, immaginando di rispondere ad un’intervista
“Tabula rasa. Vita nova!”
Machond se lo ripete come un mantra: ha infatti deciso di lasciare tutto (ma in realtà tutto cosa?) per trasferirsi in una piccola città della Normandia, alla ricerca dell’ispirazione per un capolavoro, della gloria ma soprattutto di un senso alla sua vita. La sua scelta non è casuale o dettata dall’istinto: si trasferisce a Étretat, la località della Normandia nota per le falesie immortalate da Claude Monet, in una bizzarra – quanto inutile- casa costruita da un architetto visionario come lui, compra all’asta la giacca di lavoro appartenuta a grandi artisti. Ma nonostante il grande dispendio di energie e denaro, la sua tela resta bianca.
Sul suo cavalletto posa la foto di una bambina, la figlia che sua moglie ha portato con sé in Cina dopo la separazione e mai più ritrovata. E un piccolo peluche rosso e sporco, a forma di piccolo riccio, molto probabilmente appartenuto alla bimba in foto.
I ricci sono l’unica cosa che riesce a disegnare seguendo un delirio creativo che sembra predisporre la nascita di un grande capolavoro, ma che porta invece a circa venti ripetizioni dello stesso semplice disegno. Un disegno nemmeno facile da comprendere: nessuno accetta la troppo semplice verità e vede nei suoi scarabocchi un omaggio alla vulva.
Ma chi sono questi tutti? La ricerca di un capolavoro lo porta a incrociare una serie di personaggi locali, ciascuno con il proprio mondo bizzarro e affascinante. L’affabile pittore Bagnoule, un pittore figurativo disarmato dalla bellezza della natura, la più concreta ed affermata pittrice Macha, l’originale e ambiguo LeHomet, la giovane Deborah che dipinge sassi e la talentuosa, scaltra e affascinante gallerista Cécile, interpretata da una Camille Cottin all’apice del successo che non si smentisce mai.
L’evoluzione della commedia potrebbe sembrare scontato, soprattutto a chi conosce le commedie francesi tendenti all’assurdo. Invece “L’Art d’être heureux” sorprende continuamente lo spettatore con la sua imprevedibilità, affrontando grandi temi esistenziali con una leggerezza che non cade mai nella superficialità, con una comicità senza peli sulla lingua che assurdamente non diventa mai volgare.
Benoît Poelvoorde riesce a creare un personaggio a dir poco iconico, conquistando continuamente il centro della scena, anche in mezzo a campi lunghissimi sui pittoreschi panorami della Normandia, tra una panoramica e l’altra, in cui il cielo cerca continuamente di invadere l’intera inquadratura.
Impacciatissimo ma convinto di sé, il protagonista si destreggia continuamente tra tenerezza e goffaggine, ma anche spocchiosità e vanagloriosi discorsi da pedante e sedicente artista. Machond porta il pubblico e tutti i personaggi che incontra quasi al limite della sopportazione con citazioni di grandi artisti, tentativi di darsi un’aria “più complicata di quello che sembra”, con un continuo rifiuto degli schemi della società, ma anche della semplice ed affermata realtà. Sembra arrogante, pieno di sé, serioso.
Non appena lo vediamo in relazione con altri, però, le cose cambiano. Quella sicurezza si sgretola subito e si manifesta per quello che è: un’armatura poco resistente. Il rifiuto degli schemi, che passa per il rifiuto della bellezza, dell’influenza del panorama, delle definizioni di libertà, arte, fino all’esilarante rivendicazione della libertà a camminare come un pazzo, si rivela essere una patetica negazione della realtà. Machond cerca rifugio nell’astrazione e nel concettualismo, per fuggire da una vita che fa acqua da tutte le parti, dal dolore di un amore perso e soprattutto dalla lontananza di una figlia perduta.. ma chissà se effettivamente e concretamente cercata.
Nella sua complessità e nella sua ricerca della verità (artistica e filosofica), Machond vorrebbe essere ascoltato con ammirazione, ma spesso si ritrova a far ridere. E ride anche lui, ma la precisa mimica dei dettagli dell’attore ci permette di cogliere un’amara malinconia e delusione. Da parte del mondo e di se stesso. La metafora del riccio diventa quindi immediatamente comprensibile: il protagonista si chiude mostrando solo i suoi aculei, le sue citazioni di scrittori famosi e i suoi concetti visionari che esulano dal reale, ma le sue difese crollano sempre e, così, diventa ridicolo, divertente, patetico.
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Il pubblico in sala ride, ride fino alle lacrime, continuamente sorpreso dalla piega che prendono gli eventi e dalla comicità così semplice e spiazzante, grazie alla bravura di grandi attori come Benoît Poelvoorde e Camille Cottin.
In questo modo anche le riflessioni profonde ed esistenziali, condite con leggerezza ma mai effettivamente svuotate di senso, arrivano allo spettatore: qui sta il grande merito di Liberski: la perfetta alchimia tra leggerezza e serietà, portando il pubblico a fermarsi a riflettere, mentre le lacrime di ilarità si asciugano sotto le ciglia. Per poi tornare a sorridere, ma anche ad emozionarsi.
Perché ad un certo punto, senza mai perdere la capacità di far sorridere, il tono del film cambia. L’imprevedibile e sorprendente piega che prendono gli eventi – situazioni sempre più assurde e devastanti da cui Machond esce evidentemente provato -, distraggono l’artista in crisi dalla sua ricerca della gloria, per condurlo verso una scoperta molto più essenziale: la semplicissima felicità di essere se stesso, con tutte le sue complessità e i suoi difetti, arrendendosi alla complessa e completa bellezza della realtà.
Paradossalmente, è proprio un’improbabile compagnia di amici sgangherati a offrirgli, inconsapevolmente, la via d’uscita. Da un lato, lo “salvano” dalla sua ossessione per il successo, dall’altro lo incastrano in un nuovo mondo fatto di piccole cose, di cene conviviali, di sguardi sul mare e di amori da ricordare o comunque vivere, facendo tesoro delle imprevedibili sfide del destino.
Tra momenti divertenti e riflessioni profonde, “L’Art d’être heureux” è un’ode alla semplicità e alla ricerca di realizzazione personale.
(Fonte foto: Romacinemafest)